JACK INGRAM (Livin' or Dyin')
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  Recensione del  30/01/2004
    

Ingram è un musicista culto, almeno ad Austin. Questo è il suo quarto disco, il primo che esce per una major (in realtà il secondo, visto che la Rising Tide ha ripubblicato l'ottimo «Live at Adair's», uscito su indie, dopo essere stato rifiutato dalla Warner), e, sicuramente, il primo che gode di una produzione code si deve. A produrlo è stato nientedimeno che Steve Earle (assieme al suo partner nella E2 Squared Ray Kennedy), che, dopo averlo visto dal vivo, gli ha dato quella chance che Jack attendeva da tempo. E «Livin' or dyin'» non delude certamente, anzi porterà ulteriori estimatori nel già corposo carniere del giovane texano. Il suono è country, ma elettrico e robusto, con vigorose dosi new country, tanto che questo album entra di diritto nella nostra rubrica più seguita.
Ma d'altronde Ingram aveva già mostrato in passato di essere uno che, pur facendo country, voleva andare controcorrente: i suoi primi due dischi in studio, «Jack Ingram» e «Lonesome Questions» avevano dato la misura del suo valore, «Live at Adair's» aveva confermato in positivo e, ora, con l'aiuto di Earle, il ragazzo sta per spiccare il volo. «Livin' or Dyin'» è un disco robusto, in cui Jack e la sua band, The Beat Up Ford Band (formata da Chris Claridy, chitarra, Pete Coatney, batteria, Gus Salmon, basso) eseguono dal country rock in modo vigoroso, con la radici texane profondamente insite nel suono e dovuti omaggi a Steve Earle e Jerry Jeff Walker, senza dimenticare il grande Guy Clark, cui il nostro paga il suo tributo con una bella versione di «Rita Ballou».
Musica legata alle radici quindi, diretta, senza fronzoli: una manciata di canzoni solide, suonate in modo stringato, cantate bene, che vanno dritte al cuore. Il Texas ci ha spesso riservato di queste sorprese e Jack è uno dei talenti migliori apparsi all'orizzonte in questi ultimi anni: il suo debutto adulto arriva giusto in tempo per sancire la raggiunta maturità, sia come autore che come interprete.