Questo è il quattordicesimo album della carriera di
John Hiatt, escludendo l'antologia della Geffen e la collaborazione coi Little Village. Ed è un bel disco. Ma è anche profondamente diverso rispetto al precedente «
Walk on» (ottobre '95), il primo per la Capitol: rispetto a quel disco, più orientato verso una musica ostentatamente roots, «
Little Head» rappresenta un discorso musicale quasi a 360 gradi. Infatti il cantautore dell'Indiana passa in rassegna i vari stili che hanno costellato la sua carriera e mette a punto un puzzle intrigante che, ascolto dopo ascolto, prende sempre più corpo.
All'inizio il disco sembra slegato, quasi non ci si rende conto di ascoltare lo stesso album, poi, via via che le canzoni vengono memorizzate, l'album prende una sua fisionomia e cominciano a spuntare grandi canzoni, canzoni curiose, episodi interessanti. John non è nuovo a questi esperimenti ma, ultimente, ci aveva abituato a dei dischi più «a tema». «
Perfectly good guitar», ad esempio, era un disco rock, duro e vigoroso, con venature nere, ma con l'essenza del rock in ogni solco, mentre lo stesso «
Walk on» o l'ottimo «
Slow turning» erano delle tergiversazioni sul tema delle radici.
Non siamo ai vertici di «
Bring the family» che rimane, a tutt'oggi, il suo capolavoro, ma Hiatt è un cantautore vero, ha la mano fatata e sa sempre scrivere canzoni con la C maiuscola, sa sempre trovare il bandolo della matassa e regalare ai propri fruitori un disco solido dai sapori variegati. Rispetto a «
Walk on», forse troppo lungo, questo album supera di poco i 40 minuti: ma è sostanzioso e non sciupa una sola nota. Si passa dal rock alla ballata classica, dalla musica nera alla canzone d'amore: non ci sono pause di sorta, solo musica, talvolta grande musica, in cui la voce tonitruante dell'autore e la solida base musicale fanno un tutt'uno dal fascino coinvolgente. Tra i musicisti coinvolti nel progetto, troviamo:
Benmont Tench, Peter Holsapple, David Immergluck, John Bryon e la sezione fiati dei
Tower of Power.