JOHN HIATT (Hiatt Comes Alive at Budokan)
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  Recensione del  30/01/2004
    

All'inizio di quest'anno pochi, ma fortunati, fans di John Hiatt hanno risposto ad una offerta fatta tramite posta dalla A&M americana ed hanno avuto la possibilità di acquistare «Live at the Hiatt», un CD esclusivo, in edizione molto limitata (solo 2500 copie), registrato lo scorso autunno a Londra. Il disco ha comunque avuto una bella eco, sia da parte del classico passaparola che da parte di certa critica che ha avuto la fortuna di entrarne in possesso. Così Hiatt e la sua etichetta hanno deciso di pubblicare un disco dal vivo vero e proprio, cioè disponibile normalmente sul mercato: «Hiatt comes alive at Budokan».
Titolo ironico, ovviamente, come la divertente copertina che ci mostra John nelle vesti di un nipponico dedito al karaté. È un disco molto elettrico, forte e vibrante, chitarristico e muscolare, in cui il nostro, ben asservito dalla sua attuale band, The Guilty Dogs (cioè Michael Ward, chitarra, Davey Faragher, basso, Michael Urbano, batteria) ci regala settantacinque minuti di sanissimo rock. La performance, o meglio, le performances (il disco non è registrato al famoso Bukodan giapponese, bensì in varie località americane: Portland, San Luis Obispo, Lexington, Chicago, Providence, Poughkeepsie, Newark, New Haven, Austin ed Huntsville) sono sudate e torrenziali, con la voce nera di Hiatt che domina un terzetto nerboruto in cui la chitarra di Ward compie evoluzioni, mentre la sezione ritmica fa la sua parte con forza e convinzione.
Hiatt rilegge alcune delle sue canzoni più memorabili e lo fa in modo diverso, con il suono che ha caratterizzato la sua opera più recente, «Perfectly good guitar», cioè scarno e chitarristico, e, in alcuni momenti, è veramente travolgente. Apre «Through your hands» («Stolen moments»), voce e chitarra, voce espressiva e chitarra acustica tagliente: l'atmosfera è subito calda e si capisce che la serata è quella giusta.
«Real fine love» («Stolen moments») allontana di botto l'atmosfera acustica dell'inizio e ci regala vibrazioni intense: un linea di chitarra precede di un attimo l'intro duro della sezione ritmica e della solista: la voce è espressiva e la canzone scivola in modo piacevole. «Memphis in the meantime» («Bring the family») è più annerita rispetto all'originale, con una base molto mossa, e la chitarra energica di Ward che detta legge: Hiatt canta con voce secca. Preferisco l'originale. «Icy blue heart» («Slow turning») rallenta la tensione. Lenta, meditata, piena di pathos, rimane una ballata splendida e questa versione dal vivo la nobilita.
La voce del protagonista è molto espressiva, nel suo cantato rauco, mentre il contorno strumentale è appena accennato. «Paper thin» («Slow turning») è di nuovo dura: chitarra elettrica sugli scudi e base ritmica pressante. Hiatt sfodera grinta nella voce e riveste a nuovo, con tonalità quasi hard, uno dei suoi brani meno noti. «Angel eyes» è stata resa celebra da Jeff Healey e John ci da la sua versione: un gradino, anche due, al di sopra di quella poco fantasiosa del chitarrista cieco canadese. Classico lento, dotato di una buona linea melodica, «Angel eyes» è sicuramente una bella sorpresa.
«Your dad did» («Bring the family») inizia in modo tranquillo, poi prende corpo e si scatena in un turbinio di suoni elettrici in cui la bella melodia prende il sopravvento, ben assecondata da una versione decisamente muscolare. Conclude il primo lato il capolavoro assoluto di John, quella ballad tesa ed amara che risponde al titolo di «Have a little faith in me» («Bring the family»): voce e piano, ovviamente, Hiatt rilegge il suo classico e lo fa con molta forza interiore, il suono del pianoforte è pressante e la voce raggiunge tonalità altamente emotive. «Drive south» («Slow turning») ci riporta a terra: grande canzone e buona versione, elettrica, dura quanto basta, dominata dalla voce espressiva di John e dal solismo solido come la roccia di Ward.
«Thing called love» («Bring the family») è rivista in modo duro e vibrante: versione lunga e pressante ma decisamente affascinante. Il brano, splendido, si presta a riletture di vario genere e questa, particolarmente aggressiva, è di grande impatto. Lunghi assoli di chitarra, base ritmica sempre molto presente, voce fortemente espressiva. Finale travolgente. «Perfectly good guitar» («Perfectly good guitar») è un brano perfetto per essere suonato dal vivo e questa versione ce lo dimostra ampiamente. Canzone di grande impatto, suonata con un feeling poderoso, non perde di un filo la sua intrinseca visceralità e risalta ancora meglio nella sua nuova veste.