JOHN HIATT (Walk On)
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  Recensione del  30/01/2004
    

John Hiatt non è certamente uno sconosciuto. Anzi, direi che su queste pagine è quasi di casa, in quanto vi appare regolarmente, ad ogni sua uscita discografica. Il suo rapporto con la A&M, terminato lo scorso anno con un disco dal vivo, ha dato dei frutti che sono andati ben oltre ogni più rosea previsione: un capolavoro assoluto («Bring the family»), tre ottimi album di studio ed un live vigoroso. Il passaggio di etichette poteva essere problematico, con pressioni di ogni genere, con magari il tentativo di farlo diventare più commerciale: niente di tutto queto, Hiatt non è uno che si vende, per nulla al mondo. Casomai sbaglia una o due canzoni ma, state tranquilli, finisce sempre col fare un bel disco e col lasciare il segno. «Walk on» non segue il precedente lavoro, «Perfectly good guitar», ma si distacca decisamente, sia come scrittura che, soprattutto, come suono. John, durante l'ultima intervista, mi aveva anticipato un disco abbastanza acustico: non è andata propriamente in questo modo, ma il suono è sicuramente più soffice rispetto a tutte le ultime produzioni su A&M.
«Questa volta», dice lo stesso autore «tutte le canzoni sono state scritte mentre ero in giro in tournée. Io e la band siamo stati in giro per tredici mesi, tra Europa e Stati Uniti: io mi sono portato una chitarra acustica ed un quaderno su cui annotare ogni mia idea, e quando ero stufo di essere in giro, ho iniziato a comporre. Raramente scrivo quando sono in tournée, ma per alcune ragioni l'ho fatto questa volta; ed ho vissuto un piccolo dramma personale per scrivere tutte queste canzoni: durante il giorno, mentre stava nella mia stanza d'albergo, ero un folksinger, mentre di sera ero il leader di una band».
Disco diverso questo «Walk on», disco che non ti aspetti da uno come Hiatt, nostalgico in parte, con parecchi riferimenti ai sessanta, meno nero del solito, più roots oriented con influenze country e folk: il primo brano, «You must go» è dylaniano, «Shredding the document», per contro, ha il segno indelebile dei sessanta, grazie anche all'usaodi un clavicembalo (Stones…), «I can't wait» (duetto con Bonnié Raitt) è una melodia accattivante, con chiari riferimenti alle classiche soul ballads dei sixties. E che dire delle ultime tre canzoni: l'attendista «Wrote it down», la lenta «Your love is my rest», la strana «Mile high», che mi ha spiazzato non poco. Hiatt ha indubbiamente voluto cambiare, senza riciclarsi, senza fare la parodia di sé stesso, ma scrivendo di buzzo buono e cavando dal cilindro dieci canzoni ad alto livello e tre «diverse» che richiedono un maggiore approfondimento.