John Hiatt è ormai uno dei grandi: è uno su cui si può fare affidamento ad occhi chiusi, ma la sua carriera e la sua vita, non sono state certo rose e fiori. Ha alle spalle un matrimonio finito tragicamente ed almeno quindici anni di dura gavetta. Ha esordito nel 1974, ma era già on the road dal 1970, ha inciso dischi validi senza avere un minimo riscontro commerciale, ha formato il suo carattere e forgiato la sua musica disco dopo disco, passando da influenze inglesi (Elvis Costello, Joe Jackson, Graham Parker) a radici americane più solide (Ry Cooder, black music, Bob Dylan) e, dal 1987 in poi, cioè dallo splendido «
Bring the family» è entrato nel ristretto novero dei grandi.
Fa un disco ogni tanto (il suo ultimo album solista, «
Stolen moments» è del 1990) ma quando lo fa state sicuri che ci troviamo di fronte ad un solido lavoro, fatto con professionalità e grande passione. Lo scorso anno c'è stata la parentesi con i
Little Village (cioè Hiatt, Cooder, Keltner e Lowe: un progetto che andava avanti dal 1989 e che, in origine, avrebbe dovuto chiamarsi Hiatus) in cui Hiatt ha giganteggiato dal punto di vista compositivo, mentre Cooder e company hanno fatto gli sparring partners (mentre dal vivo era Cooder a guidare la barca).
Ed ora, dopo lunga attesa, torna con il suo dodicesimo album da solista (compresa l'antologia «
Ya'll caught?») e «
Perfectly good guitar», ad un ascolto approfondito, risulta uno dei suoi dischi più compiuti. È molto nero, è chitarristico allo spasimo, con influenze persino punk, ma è anche lirico ed intenso, vissuto e potente, forgiato con una raggiunta pace dei sensi: è meno personale perché non riguardava la vita del suo autore ma quello che lo circonda.
Mi spiego. Hiatt ha ormai passato i quaranta anni, ha tre figli, è felicemente sposato, non rincorre più i fantasmi di un passato sfortunato, la sua vita ora è normale, tranquilla ed abbastanza agiata: l'uomo è appagato, il musicista rilassato ed il risultato è ugualmente molto positivo. Infatti il musicista Hiatt riesce a cavare fuori il meglio di sé della sua scrittura, sempre molto lucida, e usa una strumentazione molto semplice per condurre in porto il suo nuovo lavoro. Con la produzione di
Matt Wallace (Faith No More) ed il solo aiuto di
Michael Ward (chitarra, membro dei School of Fish),
Brian MacLeod (batteria, membro dei Wire Train) e
John Pierce (basso), John ci regala un disco poderoso e sanguigno che ha il feeling e l'intensità delle sue opere migliori ed il piglio giovanilistico del rock chitarra-basso-batteria.
Infatti, che lo si creda o meno, Hiatt si è ispirato per fare questo album ai dischi che ascolta il suo giovane figlio Rob (15 anni): «
Ascolto spesso nastri di giovani band che mio figlio mette in macchina quando lo accompagno a scuola al mattino. Musicalmente sono rimasto un pò fermo in questi anni, così,tramite mio figlio, ho potuto riaprire le orecchie. Mi piacciono questi giovani gruppi dove ci sono dei ragazzi che cantano che hanno il suono e l'aspetto di gente normale, invece delle solite rock stars da baraccone. E tutta questa gente usa le chitarre, tre accordi e via».
E così John è entrato in studio e, in sole due settimane ha inciso il tutto, ed il missaggio finale ha richiesto solo altri quindici giorni: un mese di lavoro per un'ora di musica, intensa e chitarristica, che John ha messo su nastro con gusto e passione. «La vita comincia a quaranta anni», dice Hiatt riprendendo un vecchio proverbio, e «
Perfectly good guitar» conferma quanto il suo autore ha riferito in precedenza.