Non era facile bissare un lavoro come
Bring The Family. Entrato, a ragione, nella playlist dell'87 delle principali riviste musicali nazionali ed estere, quel disco contava su un eccezionale set di musicisti, Nick Lowe, Jim Keltner, Ry Cooder e su un grande autore ritrovato,
John Hiatt. Quelle canzoni, da "
Memphis In The Meantime" a "
Alone In The Dark", da "
Lipstick Sunset" a "
Have A Little Faith In Me" avevano una tale fede nell'amore e nella vita da sedurre chiunque avesse uno straccio di muscolo al posto del cuore.
Come se il buio, la solitudine, la disperazione di una vita in perenne equilibrio con la morte (leggetevi la "storia" sul numero 118) avessero trovato una catarsi nel rock, aprendo la via ad una nuova stagione dell'uomo. E così è stato.
John Hiatt è rinato a nuova esistenza fisica, morale e artistica. Lo afferma senza mezzi termini
Slow Turning, nono album del nostro, un anno dopo
Bring The Family.
Slow Turning non ha l'intensità del disco precedente, non ci sono assoli stranianti e languidi e nemmeno è permeato dalla tensione che faceva di quelle canzoni l'amara biografia di un disagio esistenziale. Due album identici avrebbero finito col confondersi e non sarebbero stati sinceri.
Perché se
Bring The Family parla del buio e dell'oscurità in cui si è venuto a trovare per troppo tempo Hiatt, il nuovo disco è già lontano dalla paura e l'orizzonte è un nitido paesaggio di calde nostalgie e affetti domestici. Protagonisti sono i dondolanti movimenti della ballata, agri e dolci, guidati da una chitarra acustica, delicata anche nei suoi graffi, sognante, pigra come si conviene a delle melodie che vengono da Sud e non hanno voglia di sbarazzarsi del caldo che si portano appresso.
Il profumo della terra, il respiro delle strade, la luce del deserto, le ombre dei cactus e dei motel, l'America figurata come un film a basso budget e poche parole; visioni che si incrociano col vociare dei camionisti e degli spot delle radio, la realtà è del primo che se la immagina.
Slow Turning è una carezza tenera e dolce che ti fa sentire in pace e a casa, che ti coccola le orecchie, che ti disegna un orizzonte da Rio Grande negli occhi. Ma è anche un viaggio, un "
Drive South", con mete precise e garantite: la voce sempre più nera di Mr. Hiatt, una chitarra, quella di Sonny Landreth oscilla tra Cooder e New Orleans, il pizzicare tenue e "traditional" di un liutaio come Bernie Leadon (Eagles), la produzione di Glyn Johns, ingegnere dei "tagli" americani degli Stones. Tra "fiori morti" e "cavalli selvaggi" qui c'è puzza di
Sticky Fingers.