Jon Dee Graham è una vecchia conoscenza dei Buscaderiani più incalliti. Negli anni ottanta il texano faceva parte di una formazione la cui vita è stata molto breve ma che noi abbiamo amato molto, i
True Believers di Alejandro Escovedo. Il gruppo si è sciolto dopo avere pubblicato un solo LP ed averne inciso un secondo, edito anni più tardi dalla Ryko, e Jon Dee si è messo a fare il turnista. Lo abbiamo ammirato nei dischi di
Calvin Russell, quando Calvin era sulla cresta dell'onda, quindi in quelli di John Doe, Patty Smyth, Michelle Shocked, poi si è messo a fare in proprio.
Ma prima dei True Believers il nostro aveva già fronteggiato gli Skunks, una punk band di Austin, e fatto parte del gruppo di Lou Ann Barton. Nato in un ranch sul confine tra Messico e Texas, ha assorbito la musica di frontiera, ma non ha mai veramente palesato queste influenze, dandosi piuttosto al rock ed alla musica cantautorale. È stata KeHy Willis a ripescarlo dall'anonimato in cui era finito, disilluso dallo show biz e da quello che lo circondava. Cosi, nel 1997, Jon Dee ha pubblicato il suo primo lavoro solista, un disco introspettivo ma di grande carattere,
Escape From The Monster Island. Sono passati due anni ed ecco l'intrigante
Summerland, recensito molto bene su queste pagine. Altri due anni e Graham pubblica il terzo lavoro. È il disco più completo, intenso, vissuto e creativo della sua breve carriera.
Un disco di rock, di puro rock, con il carattere di
John Hiatt e certe digressioni roots che lo staccano decisamente dalla produzione attuale.
Hooray For The Moon non è un disco di alternative country, ma un disco di rock con influenze folk e mexican, un disco da vero texano. Cresciuto come compositore, chitarrista di grande spessore (lo è sempre stato), ha affinato anche la voce, rendendola più roca e profonda ed ha dato alla sua musica uno spettro più ampio.
Registrato a Los Angeles il disco si avvale di una sezione ritmica coi fiocchi (e si sente):
Jim Keltner, batteria, e l'ex Spirit
Mark Andes, basso. Il resto si deve alle chitarre di
Michael Hardwick, alle tastiere di
Mike Campbell, ed alle voci di
Litle Joe e Davey Faragher. I punti di contatto con il suono di Hiatt non sono pochi: il timbro della voce, il modo di comporre, l'uso delle radici profondamente inserito nelle canzoni. Un disco solido, in cui non c'è un brano sottotono, che rivela l'anima rock del nostro, forse nascosta dai primi due lavori.
Tra covers, poche, e brani scritti di suo pugno,
Hooray For The Moon apre in modo decisamente positivo il nuovo anno. Basterebbero le ballate
Something Moves e The Huisache Tree a dare tono al disco, ma Graham ha l'anima del rocker come dismostrano
One Moment o la rilettura di
Way Down in The Hole di Tom Waits. Un lavoro di grande carattere che fa fare il salto di qualità al suo autore, da comprimario Graham diventa uno dei musicisti su cui contare.
Le canzoni.
One Moment, solida rock ballad dal tessuto elettro acustico, è il biglietto da visita del disco con le chitarre che si scambiano limpidi fraseggi ed una melodia profonda caratterizzata dalla voce intensa dell'autore.
The Restraining Order Song è diretta e fruibile: si avvicina al suono del primo Matthew Ryan, sia per l'uso della voce roca che per le chitarre taglienti che delineano la melodia.
I Go Too ha il passo di una ballata di John Hiatt, lenta, intensa, solida.
Something Moves è una gemma quasi acustica dominata da un tema di estrazione tradizionale. La canzone cresce lenta, la voce intensifica la sua presenza, gli strumenti fanno da cornice in modo tenue ma incisivo. Già potrebbe valere il prezzo del disco, ma le sorprese non sono ancora finite.
Way Down in the Hole rivede in modo elettrico e pulsante la nota composizione di Tom Waits che, pur mantenendo gli elementi tipici del suo autore, ha un piglio rock deciso e coinvolgente.
Graham cambia completamente registro e torna alle radici originarie con l'aiuto di Little Joe, noto vocalist messicano-texano, rileggendo l'arcinota
Volver Volver. Quattro minuti di pura mexican music, suonata in modo irruente, senza fisarmonica ma con il passo tipico della tradizione. Jon Dee canta con voce splendida, farebbe invidia a Cesar Rosas, e la canzone, tra gritos e una strumentazione elettrica ma decisamente on the border, riesce a catturare anche l'ascoltatore meno attento. Una versione da brivido, credetemi.
Waiting for a Sign è una composizione lenta ed evocativa, giocata su continui rallentamenti e grandi entrate di chitarra.
Laredo torna al puro rock, chitarre in evidenza e Keltner Andes lancia in resta, per confermare che il nostro è sempre un rocker dal pelo duro.
The Huisache Tree è la più morbida e cantautorale del lotto: melodia di stampo folk, chitarre acustiche, batteria sciolta, la ballata scorre sulla voce carismatica dell'autore.
Home ritorno al rock di stampo Hiatt-iano tramite una composizione diretta. Chiude la malinconica
Tamale House che mischia sonorità messicane e reminiscenze folk rock. Un altro brano di grande qualità per un disco dai mille sapori, cantato con il cuore e suonato in modo vibrante, con le chitarre sempre in primo piano.