JOE HENRY (Murder of Crows)
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  Recensione del  30/01/2004
    

Dati per spacciati, per dispersi, dimenticati in qualche oscuro club suburbano o peggio imbronciati da ristrettezze esistenziali, i singer-songwriter, popolo diffuso nella geografia metropolitana dei tardi settanta, hanno ripreso a brontolare le proprie storie malandate, scritte col senno del poeta e musicate con la trasandatezza del rock. Joe Henry non è molto diverso da quel pugno di teneri sbandati che tramutarono New York, alla fine della scorsa decade, in una dependance di Montmartre.
Anche se il suo debutto, Talk Of Heaven, risale al 1986, anno tutt'altro che favorevole a certi scampoli di urbana poesia. Da quella generazione di cantautori, Henry ha ereditato la sincerità di linguaggio, la minuziosa attenzione dei particolari, la vocazione all'osservazione di una realtà circoscritta, da buco della serratura o da finestra sul cortile, nonché la predilezione per i tagli di luce notturni, i silenzi, più che i rumori, delle esistenze metropolitane.
Ha invece, a differenza di qualche suo predecessore, fatto a meno dell'apprendistato folk, cercando subito, a partire dal suo primo lp, di vestire le sue song di un abito adatto al tempo, mai lemosinando sulla strumentazione d'accompagnamento e sugli arrangiamenti, vicini, come idea, a quelli dei californiani e di Van Morrison. Joe Henry non è insomma un nostalgico e nemmeno uno che vuole ripetere la lezione a memoria. Sa essere rétro e moderno nello stesso tempo, con gusto e personalità. Il sound di Murder Of Crows, difatti, in virtù della presenza del chitarrista Mick Taylor (Stones), del bassista Tim Drummond (Dylan, Cooder, Young), del tastierista Chuck Leavell (Allman Bros.) e di David Bromberg è smaccatamente fine anni settanta.
Il limone delle chitarre della East Coast e lo zucchero di un piano sofficemente bluesy, caratterizzano un ottimo rock d'autore, suonato come dio comanda da un pugno di musicisti che sembra un team vincente di basket. Ma il disco mette in rilievo anche il notevole lavoro in fase di preparazione, la dinamica delle canzoni, l'impegno di Henry nella composizione, libera da schemi prestabiliti e traducibile in soluzioni diverse. Cosa che scongiura il rischio della monotonia, in agguato quando in campo c'è una voce piuttosto monocorde tendente "al lamento". Dalla consapevolezza dei propri limiti, che sono quelli di non essere né un grande cantante né un esperto chitarrista, Joe Henry trae spunti per un lavoro che ha una precisa identità ed un fascino sottile. A cominciare dalla suggestiva copertina in bianco e nero, biglietto d'invito per una rappresentazione raffinata e di qualità.