HANGDOGS (Same Old Story)
Discografia border=parole del Pelle

  

  Recensione del  30/01/2004
    

Questo è il miglior esordio, da parte di una band di roots rock, che ho ascoltato quest'anno. Lo paragono, per forza, limpidezza di suono e bellezza di canzoni, a «Fervor» dei giovanissimi Jason & The Scorchers, ma, rispetto a quel mini (anche questo è un mini, solo sei canzoni) questo è ancora più bello. Gli Hangdogs vengono da New York e, come gli Slobberbone, sono delle mosche bianche sulla scena rock della grande mela: infatti tra un fiorire di gruppi metal, rap, hip hop, trash, funk, gli Hangdogs fanno del semplice roots rock, molto venato di country, e suonano limpidi e freschi come un fiume d'alta montagna.
Il gruppo, un quartetto, è formato da Matthew «Banger» Grimm (voce e ritmica), Kevin Baier (batteria), Automatic Slim (chitarre) e J.C. Chmiel (basso) e suona con la professionalità di una band con almeno dieci anni di dura gavetta sulle spalle. Grimm è il leader e tutto è nato quando ha incontrato Kevin Baier all'università di Syracuse: hanno cominciato a suonare assieme in cover bands, ed hanno iniziato a farsi un gusto musicale. Rock, rock n' roll, blues, rhythm and blues e country: il suono della band è nato per via naturale, smussando orpelli rock, tralasciando venture punk. «Non c'è nessuno che fa questa musica in città» racconta Grimm «così ci abbiamo pensato noi»: l'argomentazione è tanto diretta quanto lo è la musica della band. Elvis Presley è nel cuore dei quattro ragazzi che, al suono dei Led Zeppelin e dei Lynyrd Skynyrd, preferiscono Chuck Berry, Dion and the Belmonts e Eddie Cochran: «Quelle erano canzoni, quello era il rock and roll, le canzoni erano più gioiose e venivano dal cuore» ricorda Chmiel, il teorico del gruppo.
Sei canzoni, una più bella dell'altra, in cui rock, sano e robusto, e country, elettrico e pieno di vitalità, vanno tranquillamente a braccetto. Apre la fluida «Fool rush in», ritmica pressante, chitarre aperte e bella voce a condurre un brano country rock molto classico: già il primo brano ci lascia a bocca aperta. Segue «Same old story», altra composizione country ma dalla rimica più accesa, con un testo molto ironico ed una bella melodia: la voce di Grimm e le armonie vocali sono degne dei grandi gruppi che hanno segnato la storia di questo stile. «Don't mind» è una splendida ballata di sapore western dall'andamento malinconico e dal suono coinvolgente: il brano è forse il capolavoro del dischetto e conferma il talento ed il valore di questo piccolo gruppo.
Sembra di sentire Steve Earle nella sua forma migliore: ascoltate l'assolo di chitarra e l'entrata della voce e se non ne restate colpiti voltate tranquillamente pagina. «The TV too» è ancora un brano dalla struttura fortemente country: sembra uscito da un vecchio vinile dei settanta, da un disco di Waylon quando era in grande forma o da qualche jam fatta in Texas, magari con Joe Ely alla voce. «Monopoly on the blues» è fluida e scorrevole, molto più semplice delle precedenti, ma dannatamente piacevole, mentre la conclusiva «We gon rock» sembra uscita di botto da un disco di Commander Cody. Solo sei canzoni, venticinque minuti circa di musica, ma, credetemi, un piccolo grande disco che non dimenticherete facilmente. Da quando l'ho scoperto non riesco più a toglierlo dal mio CD player. Il disco è uscito alla fine del '95 ed ora gli Hangdogs sono alla ricerca di un contratto adulto, mentre il loro mini album è già arrivato alla quarta edizione. Speriamo abbiano la possibilità di proseguire: dipendesse da noi gli faremmo firmare un contratto a vita.