Uscito recentemente da un periodo nerissimo per cause personali e per una lunga serie di dischi rifiutati dalle case discografìche,
Steve Forbert colora l'autunno con un disco intenso e pervaso da una tristezza difficilmente sostenibile. Aprire un album con una canzone struggente come
If I Want You Now vuoi dire catapultare subito l'ascoltatore in un atmosfera cupa da cui si esce con difficoltà. Il nostro ci ha già da tempo abituato a scelte coraggiose e questo
Rocking Horse Head lo è sicuramente.
Tutto infatti sembra fatto apposta per mettere in imbarazzo e per presentarsi nella forma meno appetibile, quasi volesse rivendicare con orgoglio il proprio essere ai margini. Mai come in queste dodici canzoni Forbert ha descritto la propria malinconia, sottolineata da una voce sempre più strozzata e da una strumentazione scarna, molto spesso più pendente verso i crepuscoli del country che verso le strade del rock. Anche quando i riff dell'elettrica di Jay Bennett prendono il sopravvento, le melodie di Steve restano sofferenti, gridate a denti stretti, addolcite dai violini e dal dobro di Max Johnston.
Davanti ad esempi di poesia della disperazione come la preghiera di
Dear Lord o la blueseggiante
Good Planets Are Hard To Find si può solo silenziosamente ascoltare. Disco notturno, ottimamente suonato e definito dalla essenziale produzione del bassista Brad Jones,
Rocking Horse Head dimostra come Forbert abbia ritrovato la forza di cantare ancora le proprie sconfitte.