DAN BERN (New American Language)
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  Recensione del  31/01/2004
    

Nell'altalenante carriera di Dan Bern, sempre indeciso tra il cono d'ombra di Bob Dylan e la voglia di rock'n'roll, New American Language può essere la svolta decisiva. Sfiorita la collaborazione con Ani DiFranco (non che avesse sortito particolari effetti), ormai alle spalle il brillante e omonimo esordio (era il 1997, sembra un'eternità) nonché Fifty Eggs e Dog Boy Van (e la doppia raccolta di outtakes Smartie Mine), Dan Bern scova un pugno di canzoni memorabili sorrette da un impiato sonoro di impeccabile rock'n'roll.
Niente di particolarmente innovativo, certo: il cambiamento è nella convinzione, nella linearità e nell'energia di New American Language che già dal primo impatto mostra di avere le carte giuste. Si parte bene, quindi: Sweetness è un inizio perentorio, senza dubbi, con un volume di chitarre elettriche sufficiente a spazzare la strada fin dentro al cuore di New American Language. Li chiamano apripista, e un motivo ci sarà: il tiro (e il suono delle chitarre) qui ricordano più lo Springsteen di Lucky Town che il Bob Dylan di tutta una carriera, prima fonte di ispirazione (soprattutto per quello che riguarda la voce) di Dan Bern e questa inedita sfumatura prosegue anche con New American Language.
Le liriche sono brillanti, a tratti visionarie, ma il sound è quello delle ballate di Tunnel Of Love, compresa la vicinanza con Van Morrison. Anche un sottofondo soulful così marcato è una piacevole variazione sul tema che trova una conferma in Turning Over: introdotta da una chitarra suonata in perfetto stile Steve Cropper, si sviluppa attorno ad un piano elettrico gonfio di emozioni e un violino zingaresco e finisce in un'armonica da favola. Hanno lo stesso fascino anche Albunquerque Lullaby, Toledo e God Said No, ma il nuovo linguaggio americano di Dan Bern comprende anche un bel po' di rock'n'roll da Alaska Highway (organo psichedelico e grande chitarra nel finale con un assolo che sembra campionato da qualche prova nel garage di Mike Campbell) a Tape fino a Honeydoo! che ricorda persino i Blasters.
Funzionano perfettamente anche i suoni (nel team di produzione spicca il nome di Chuck Plotkin, uno che ha passato gli ultimi vent'anni della sua carriera ad ascoltare i dischi di Bruce Springsteen prima che uscissero), tanto che emerge anche l'aria esotica ed orientaleggiante di Rice, un esperimento riuscito, una volta tanto. Poi, d'accordo, Thanksgiving DayParade è un finale talmente pieno di echi dylaniani che uno pensa di aver nel lettore Love And Theft.
La canzone però è rocambolesca e maestosa nello stesso tempo e gli archi e il pianoforte suonano quel tanto romantici da sembrare la sigla finale di un film complicato con un lieto fine. Un po' la storia di Dan Bern, che New American Language può risollevare ai livelli che gli compete: gran bel disco, e titolo che dovrebbe suggerire più di una riflessione.