TROY CAMPBELL (American Breakdown)
Discografia border=parole del Pelle

       

  Recensione del  26/02/2004
    

Dopo aver accantonato, non senza rimpianti, i Loose Diamonds, Troy Campbell sta provando una sua carriera solista, legittimato da un paio di fatti concreti: ha una certa abilità nello scrivere canzoni dall'appeal immediato ed ha una discreta voce, quanto basta per tirare avanti. Ovvio che nel sodalizio con i Loose Diamonds e con Jud Newcomb in particolare queste doti facevano parte del gioco di squadra (basta ricordare Burning Daylight o anche New Location) e contribuivano a risultati più efficaci: capita anche ai più grandi di restare orfani della propria rock'n'roll band e continuare da soli è sempre difficile.
È un po' l'aria dimessa di American Breakdown a confermarlo: alle canzoni di Troy Campbell non viene aggiunto tantissimo, anche perché avendo una struttura esile verrebbero soffocate. Una scelta che deve molto a Gurf Morlix, un raffinato artigiano del rock'n'roll, che in veste di produttore, bassista, chitarrista e molto altro è praticamente l'alter ego di Troy Campbell in American Breakdown. Sono loro due il team, più Rick Richards alla batteria e qualche intervento esterno sparso qua e là. Il budget ridotto all'osso non riduce però le qualità delle canzoni, a partire dalla stessa American Breakdown, un brano cupo e intenso, con un eccellente ritornello che Troy Campbell interpreta con trasporto, seguito dal feedback della chitarra di Gurf Morlix e da una batteria che è un martello pneumatico.
Con l'iniziale Sad Truth è un po' l'eccezione in una raccolta di ballate scarne e fascinose (The World Keeps On Ending, Pacific, Sorrytown)che magari hanno soluzioni curiose (le chitarre che sembrano sitar in World Of Tears o gli aromi del border in Rosabelle). Con una conclusione d'autore, una grandissima versione di Home After Dark di Dan Stuart: le chitarre (a Gurf Morlix si aggiunge Jon Sanchez) non fanno rimpiangere i Loose Diamonds e mandano in ebollizione gli amplificatori per tutti i cinque minuti e ventisette secondi della canzone.
Un finale che oltre ad essere l'omaggio ad un misconosciuto gioiello di un vero e proprio desperado del rock'n'roll, mostra anche tutti i limiti di American Breakdown: un disco bello, interessante, piacevole e onesto, ma a cui mancano l'irriverenza, la follia, la forza e quella voce che, come diceva qualcuno, è un urlo che viene dallo stomaco.