JOE ELY (Twistin' in the Wind)
Discografia border=Pelle

        

  Recensione del  30/01/2004
    

Letter to Laredo è un capolavoro. Fare un disco dopo quello splendido album non era cosa facile. Sopratutto non era facile capire che cosa si doveva fare. Ma Joe Ely si è preso tutto il tempo di cui aveva bisogno ed ha messo a punto un disco di qualità, diverso da quello che lo ha preceduto, più rock, ma non meno poetico, più energico, ma sempre pieno di canzoni ad ampio respiro in cui il tema epico, così caro al nostro texano preferito, ha una parte preponderante.
Lungi da lui l'idea di scendere a compromessi, infatti, se vogliamo, questo album è ancora più radicale del precedente. Joe torna al rock, il disco è sicuramente più elettrico , ma, nel contempo, abbraccia con maggiore fervore la musica messicana, usa di più la fisarmonica, senza privarsi del chitarrista flamenco Teje, che aveva dato un tocco di originalità a «Letter to Laredo». «Twistin' in the wind» è un lavoro che cresce lentamente, matura ascolto dopo ascolto, e, dalla prima canzone, che fa da ponte tra «Laredo» e «Twistin'», all'ultima, una buffa canzoncina di sapore tex mex, lascia un retrogusto notevole. Ho ascoltato a lungo il nastro, prima di farmi un'opinione definita, ho parlato con Joe, ho capito il perché di diverse canzoni e ho maturato il giudizio che vado ad esporre.
C'è un ritono al rock, è vero, ma non inteso come «Love & danger», decisamente più materialità: «Twistin» è l'opera di un sognatore, di un autore che sa cantare, come pochi altri, la sua terra e la sua gente, la lontananza, la tristezza, il dolore, i fiumi ed i ranches, le passioni sopite ed i desideri roventi, i lamenti interiori e gli amori non richiesti. La sua è una scelta di vita, che va oltre la musica e la musica stessa è ragione di vita: Ely non lascia nulla al caso, ma va nel profondo, scava nel nostro cuore e ci regala emozioni forti, scatena passioni e ci lascia sempre a bocca aperta per le sue scelte. Il disco, specialmente nella sequenza iniziale è a forti tinte, con stacchi imperiosi, chitarre che ruggiscono, tempi aperti, pause e controtempi, ripartenze ed oasi di pace. Non lascia l'ascoltatore, ma lo racchiude nella morsa di un suono forte e rigoglioso, che solo un grande musicista sa rendere proprio.
L'album è meno appariscente del suo predecessore, ma ascoltandolo con attenzione ci si rende conto che ci troviamo di fronte ugualmente ad un grande disco, ad un lavoro maturo e vibrante, in cui forza e bravura vanno di pari passo, in cui sapienza compositiva ed intelligenza creativa coabitano. Il disco inizia con «Up on the ridge».
Brano di grande forza espressiva, viene aperto dall'inimitabile suono gitano di Teje, poi la voce di Ely, chiara come una fonte montana, quindi la band. Canzone dalla grande forza epica, «Up on the ridge» dispiega la sua melodia attraverso un intreccio di chitarre che si fa sempre più caldo, mentre il ritmo incalza con vigore. La canzone prende corpo, diventa piena e dirompente, la voce urla la sua disperazione, mentre gli strumenti si lasciano andare a continui assoli riempiendo il brano di una particolare atmosfera, carica ed epica al tempo stesso.
È una delle canzoni più importanti del lavoro, dove il texano lascia fuoriuscire la sua vena lirica, la sua grande forza compositiva. «Roll again», che dal vivo sarà sicuramente uno dei cavalli di battaglia, è dotata di un ritornello immediatamente memorizzabile, con la chitarra di David Grissom che riempie l'atmosfera di assoli puliti ed essenziali. «It's a little like love» è una composizione tipica per Joe, ha il passo dei suoi classici, con quel sospeso iniziale, in attesa dell'entrata della band, e la voce che si lancia, irrefrenabile, nella sua epica cavalcata. L'entrata della band è potente, la chitarra di Jesse Taylor lancia strali vigorosi ed il brano si fa ascoltare tutto d'un fiato, senza lasciare un attimo di respiro. Notevole il lavoro di Lloyd Maines, che appare in quasi tutto il disco, un po' come Teje nell'album precedente. Anche questa ballata è dotata di un grande ritornello e, tra le parole, riconoscerete «Thunderstorms» che, per lungo tempo, è stato il titolo provvisorio del disco.
Il finale è, a dir poco, travolgente, con le chitarre che si lasciano andare ad una jam poderosa, che, sicuramente, sarà uno dei punti forza delle sue prossime esibizioni dal vivo nella nostra penisola (mancano pochi giorni al tour di Joe, non dimenticatevelo). «Twistin' in the wind» è forse il capolavoro dell'album e, giustamente, dà il titolo al disco. Ballata epica di grande spessore è tra le cose migliori che il nostro ha mai messo su disco. La chitarra di David Grissom lancia le sue note nell'aria e Joe prende subito possesso del brano: Grissom fende la canzone con durezza, come solo lui sa fare, e la stessa prende corpo e si distende su un tappeto vigoroso che però non perde mai di vista la melodia. Poi il brano rallenta, lascia defluire i suoni, perde in ritmo ma acquista in pathos sino a che David non ricarica la sua Fender e Joe rafforza la sua ugola. Brano potente, di sicuro effetto, farà la felicità di chi ama il suono di questo indomito musicista. Twistin è un racconto rude, una storia di vita, un momento di riflessione e la musica, vibrante ed imperiosa, rende perfettamente questo stato d'animo.
Conoscevo già Queen of heaven, sia perché il nostro l'ha latta diverse volte dal vivo, sia perché lo stesso Ely l'aveva già interpretata su un disco oscuro, ma molto bello, un album tributo alla cantautrice Jo Carol Pierce: «Across the great divide», pubblicato nel '92 dall'ormai defunta Deja Disc. Teje, affiancato da Taylor, torna protagonista in questo racconto di confine, in questa storia di gente senza speranza. Canzone dalla melodia regale, sostenuta da un ottimo suono corale, è tipica delle produzione di Joe e tra le tante che ci ha regalato, è sicuramente una delle più riuscite.
Anche qui stacchi e controtempi, con Teie che regala grandi momenti giocando a rimpiattino con la ritmica. «Sister soak the beans» ci riporta per terra dopo una sequenza che ci ha lasciato senza fiato. Si tratta di una classica ballata texana, con il dobro di Maines e la ritmica dura a fare da cornice alla voce: entra in scena la spettacolare fisarmonica (Ely la chiama squeeze boz, alla texana) di Joel Guzman, co-protagonista della seconda parte del disco. Melodia solida con il sapore del Messico ed i colori del Texas: una canzone semplice ma nobilitata da una esecuzione piena di grinta. I will lose my life, è un valzerone triste e lamentoso, un'altra storia di vita, in cui smarrimento e disperazione sono di casa: ma la speranza non muore mai, e la fisaimonica di Joel Guzman dà quel tocco di allegria che manca completamente alla parte vocale.
L'insieme e splendido, struggente e gioioso al tempo stesso, con richiami al più classico suono, texano e piccole pause in puro stile shuffle. Guzman è un musicista di notevole caratura la sua squeeze box ha un suono che raggiunge il cuore. You're workin' for the man è introspettiva e tesa. Viene introdotta da un coro, poi la voce si lascia alle spalle tutto e lancia una melodia molto espressiva, ma il coro torna facendio le veci del classico ritornello: poi la canzone si libera e diventa un brano rock dalle tinte forti in cui la chitarra di Taylor si prende il suo spazio in modo deciso. Nacho mama è una mexican song allegra e spensierata, abbellita da un hammond limpido e da un cantato sopra le righe: non c'è drammaticità in questa canzone, ma solo allegria, voglia di vivere. Guzman ci dà dentro alla grande con il suo squeeze box, ed il ritornello, molto memorizzabile, è di quelli che si fischiano già dopo il primo ascolto.
Brano leggero, ma che non guasta dopo una sene di canzoni dalle forti tinte. Bamboo shade è la seconda composizione già conosciuta. Originariamente era su «Dig all night», ma questo arrangiamento è quello che abbiamo ascoltato nel corso dell'ultima tournée italiana del texano, con Teje assoluto protagonista. La canzone appare ovviamente trasformata, diventa un racconto dei border, con ritmo e melodia che si adeguano al nuovo arrangiamento e guadagana sicuramente in forza espressiva. Joe canta in modo splendido, e la canzone scivola via che è un piacere, tra arpeggi di chitarre ed echi di messicani.
La parte centrale, con i vari assoli di chitarre, è da antologia. Corman McCarthy, l'autore preferito da Joe, andrebbe sicuramente orgoglioso di questo arrangiamento, in quanto la sua scrittura si adatta alla perfezione a questo tipo di melodia. Gli ultimi due brani sono diversi da tutto quanto li ha preceduti. Gulf coast blues è uno shuffle notturno, tra blues e un tocco di jazz, decisamente atipico per il nostro, piuttosto triste ed interiore. If I could teach my chihualhua to sing è, per contro, un piccolo scherzo che sprizza allegria da ogni nota. Giusta conclusione, in tono positivo, pei un album che ha dispensato tristezza e dolore, forza epica e grandi canzoni. Joel Guzman e ancora protagonista, e Joe si diverte un mondo a non prendersi sul serio. Non avevo dubbi: ancora un grande disco.
PS: Gli altri musicisti che appaiono nell'album sono: Glenn Fukunaga, Dennis McLarty, Mitch Watkins, Donald Lindley, Chris Searles, Bukka Allen