JOE ELY (Letter to Laredo)
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  Recensione del  30/01/2004
    

Joe Ely è uno dei miei musicisti favoriti. Da sempre. Non ha inciso molto, solo dieci dischi in diciassette anni di carriera (escluse antologie e collaborazioni) e con questo lavoro, il suo undicesimo, ha firmato il suo capolavoro. «Letter to Laredo» è un disco splendido, un cinque stelle, uno di quei rari dischi che, in capo ad un anno, si contano sulle dita di una mano. Joe si è superato, ha cavato fuori dal cilindro un album intenso, arrangiato in modo straordinario e cantato con tale anima da fare impallidire chiunque. Aggettivi altisonanti, è vero, ma per un disco di tale spessore non ci sono parole, dovrei chiudere la recensione a questo punto e obbligarvi ad ascoltarlo perché, ne sono sicuro, quando lo avrete messo sul vostro CD player ve ne innamorerete all'istante.
Nato come progetto acustico, l'album si è sviluppato in modo personale ed innovativo, grazie all'uso nitido degli strumenti (su tutti la chitarra flamenco di Teye, che ha regalato brillantezza ed originalità ad un lavoro già di per sé stesso splendido) e le canzoni, e che canzoni, hanno chiuso il cerchio. «Letter to Laredo» è il manifesto di un artista, di un autore spesso sottovalutato, talvolta considerato troppo country, altre volte troppo rock, mai compreso sino in fondo, mai capito come avrebbe meritato: ma qui Joe si è preso la sua rivincita, ed è stato capace di metter a punto un album tanto tradizionale quanto moderno in cui anima e tecnica digitale vanno a braccetto.
La chitarra spagnoleggiante, quasi sempre presente, da quel tocco in più ad una strumentazione spartana ma di grande effetto (Davis McLarty, batteria, Glen Fukunaga, basso, Lloyd Maines, dobro e steel guitar, Joe Ely, chitarra acustica ed armonica, il mitico Teye, chitarra flamenco, e, come strumentisti aggiunti, David Grissom in tre canzoni, Chris Seales, percussioni, Ponty Bone, fisarmonica, Raoul Maio (Mavericks) doppia voce in «Gallo del cielo», Jimmie Dale Gilmore, doppia voce in «I saw it in you» e Bruce Springsteen, doppia voce in «All just to get to you» e «I'm a thousand miles from home»).
C'è il sapore del vecchio West in questo disco, un sapore di polvere e terre piatte, di cactus e cieli a perdita d'occhio, c'è un tocco messicano molto accentuato che ci porta sulle rive del Rio Grande, ci sono racconti di lunghi viaggi che partono dagli altipiani texani per arrivare nei misteriosi bar flamenco dell'Andalusia, storie di ranches e fiumi, di amori e pistole; Joe canta con voce possente, ha pieno dominio della materia, racconta e ricorda e le sue canzoni sono delle storie d'altri tempi narrate con il linguaggio dei giorni nostri. Ely è un poeta, oltre che un musicista, ha la fierezza tipica dei texani, sa stilare note magiche dalla sua clessidra e sa creare una atmosfera di grande intensità, in cui non è solo questione di feeling ma anche di cervello, di anima, di cuore: musicista raro, è anche un amico prezioso ed un uomo di rara modestia.
Già infatti, se qualcuno di voi ha avuto la fortuna di conoscerlo, si è trovato di fronte ad un uomo semplice, malleabile, il cui sguardo, profondo ma buono, è tipico di chi non è abituato a mentire, un uomo che fa della musica una professione, ma che della sua professione non se ne fa un vanto.
«Letter to Laredo» è il suo apice creativo, dove le maggiori influenze musicali che hanno costellato una carriera, peraltro straordinaria, confluiscono con estrema facilità: radici country e musica messicana, canti indiani e arpeggi andalusi, ricordi dell'Italia («I left my boots in Italy» racconta in «She finally spokes spanish to me»), echi del vecchio west, e solide matrici cantautorali. Potete chiamarlo rocker o menestrello, cantautore o cowboy girovago, poeta visionario o loner: qualunque aggettivo vogliate usare si adatta alla perfezione alla sua personalità: ma Joe sfugge da qualunque catalogazione, è un musicista, un grande musicista, uno di quelli rari che solo l'America è in grado di creare.
Disco scintillante. Apre «All just to get to you», classica composizione rock del texano, potente, ma strumentata in modo semplice, con le chitarre acustiche che fanno da tappeto alla voce, con Bruce che doppia giusto sul ritornello, la sezione ritmica che entra dopo circa un minuto e l'elettrica di David Grisson che aumenta lo spessore al brano. «Gallo del cielo» proprio il famoso brano di Tom Russell, rende immediatamente grande il disco: la versione, straordinaria, fa impallidire quella dell'autore.
La chitarra flamenco di Teye, limpida come una cascata montana, è il trait d'union ideale: e il brano si sviluppa su una melodia di chiara matrice messicana, con gli strumenti che entrano lentamente e la voce di Raoul Maio che aiuta a materializzare i nostri sogni (attenzione al nuovo disco dei Mavericks, in uscita il prossimo settembre, altro album su contare ad occhi chiusi). Nei suoi sei minuti abbondanti «Gallo del cielo» è un tour de force d'autore, tutta giocata su un ritmo molto veloce, con quei trilli di chitarra che scandiscono una performance semplicemente straordinaria: il finale, con la fisarmonica di Ponty Bone ad la chitarra flamenco di Teye, ben coadiuvati dalla fisarmonica di Bone, conferiscono un notevole spessore. «Letter to laredo» inizia sospeso sulle note della chitarra di Teye, vero protagonista del disco assieme all'autore: ancora una ballad di sapore western, profonda e malinconica, giocate sulle piazzole di McLarty e sul basso di Fukunaga, con un ritornello intenso che riaffiora solco dopo solco.
«I saw it in you» è una classica ballad texana, con Jimmie Dale che doppia Joe, la chitarra che arpeggia di continuo e la steel guitar di Maines che addolcisce i toni: mentre la ascolto chiudo gli occhi e corro con la mia macchina attraverso la flat lands che portano a Lubbock. «She finally spoke spanish to me» è la variazione, con un testo nuovo di zecca, di uno dei brani più belli di Butch Hancock: chi di voi, non si ricorda di «She never spoke spanish to me», quella ballad dal sapore messicano che aveva fatto gridare al miracolo sul primo disco di Joe?
Ora la ragazza ha imparato lo spagnolo e la ballata si è sciolta e riappare in tutta la sua bellezza in questa nuova versione in cui le tinteggiature country sono mischiate alla perfezione con il fraseggio messicano della chitarra di Teye. «I ain't been here long» è tutta giocata sull'armonica di Ely e sulla slide di David Grissom: è una composizione interiore, tipica di un cantautore, a cui la chi modo straordinario e, cosa più importante, dal contenuto splendido: ballate evocative, dense di nostalgia e di pathos, che racchiudono nelle loro note tutta una tradizione di musicisti che parte da Buddy Holly e Roy Orbison ed arriva a gente come Jimmie Dale Gilmore, Raoul Maio, Terry Allen e Butch Hancock, vecchio compagno di ventura.
Penso di aver messo più aggettivi in questa recensione che nel resto dei miei scritti di tutto un anno, ma, credetemi, ne vale la pena: questo è un disco raro, prezioso, unico, addirittura indispensabile. Anche il Boss ne è stato ammaliato a tal punto da concedere la voce in due brani, quello che apre il disco e quello che lo chiude, due canzoni abbastanza diverse, più rock la prima («All just to get to you»), più interiore e vissuta la seconda («I'm a thousand miles from home») e proprio questo duetto finale ci da la sensazione che Springsteen non abbia ancora mollato ed abbia voglia di fare di nuovo grande musica: tale è l'intensità e la drammaticità della ballata, acuita dal botta e risposta delle due voci.