DEEP GREENS (Deep Greens)
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  Recensione del  30/01/2004
    

Ottimo esordio per un quartetto del Mid West, diretto discendente degli Uncle Tupelo. Infatti questi giovanotti hanno un suono secco e radicale, che ricorda molto i primi dischi della band di Tweedy e Farrar. I Deep Greens sono: Warren Black, voce-chitarra acustica-armonica, David Gilmore, voce chitarra elettrica banjo e mandolino - chitarra a 6 & 12 corde, Clay Landrum, basso, Casey Deafon, batteria. Quasi cinquanta minuti di musica, in bilico tra un rock abbastanza aggressivo e country rurale, suonati con passione.
Il suono è diretto, spoglio quanto basta, ma le canzoni sono ben strutturate ed hanno quel piglio naif che solo certi dischi sono in grado di consegnare all'ascoltatore. C'è molta vitalità nelle composizioni dei Deep Greens e anche una certa somglianza con il suono dei Blue Mountain, una band che non viene nominata spesso ma che meriterebbe più attenzione. L'album si apre con la dura «Lyric Alley», in cui però come contrasto alla chitarra dura ed alla ritmica penetrante c'è un 'acustica che stempera un poco la tensione: il cantato è molto roots oriented, mentre il suono, preso nella sua entità, rievoca i Tupelos. «The cold sun» inizia acustica, poi diventa una slow ballad perfetta da ascoltare mentre si guida di sera, anche sulle nostre strade con cielo limitato: riflessiva e inferiore, colpisce sin dal primo ascolto. «Surges» è più tenue, mentre «Diggin in the dirt», una delle canzoni manifesto del disco, assieme alle prime due, è una ballata elettrica dalle tonalità calde, dotata di un ritornello molto memorizzabile a cui fa da contrasto una chitarra elettrica. Molto espressiva la voce di Black. Ed il disco prosegue su questa linea. «In due time» è una country song cantata a due voci, molto gentile, dalla struttura acustica.
Per contro «Just not me» è molto elettrica, con un'armonica dylaniana a fare da risposta alla voce tirata di dimore: i Deep Greens hanno una notevole facilità di scrittura, anche se le loro radici sono immediatamente riconoscibili, fa piacere sentire questo suono rozzo ed elettrico, ma con oasi molto legate al country ed al folk, suonato in maniera vigorosa, ma sempre con molta attenzione alla melodia. «Thoughts abound», lenta, con l'armonica in sottofondo, ed una calda entrata della band, fa da contrasto con il blue-grass-punk «A year ago», decisamente trascinante. L'album si chiude con «An old wise king», elettroacustica; «The stage», tra le cose migliori del lavoro, ancora lenta, ma con bell'uso della ritmica ed una voce decisamente caratterizzata; «Boundless», con il banjo e l'acustica sugli scudi e la finale «Drive» dai toni più accesi, molto elettrica e abrasiva. Deep Greens è un debutto che si nota, ha il sapore dei quadri naif, è genuino e, cosa più importante, contiene una manciata di canzoni al di sopra della media.