GUY CLARK (Dublin Blues)
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  Recensione del  30/01/2004
    

Secondo album, dopo l'ottimo «Boats to build» del '92, per la major Elektra, dove, a quanto pare, il texano Guy Clark sta vivendo una seconda giovinezza. Clark è un artigiano della canzone, un pittore di piccoli quadretti, un creatore di vignette; le sue canzoni, avvolte da un tipico sapore country, sono un cocktail intelligente di poesia e letteratura e questo «Dublin blues» ne è la ulteriore conferma. Dal mitizzato «Old No. 1» inciso nel lontano 1975, otto albums e venti anni dopo Guy non ha cambiato di una virgola il suo modo di fare musica: è un texano doc, vive ai margini della scena country, fa del country, anzi usa la musica country ma non è propriamente un artista country, è solo un artista, e le sue vignette messe in musica sono sempre dipinte in modo assai brillante.
È un pioniere nell'ambito della musica delle radici, ha scritto canzoni come «Desperados waiting for a train», «The last gunfighter ballad», «Heartbroke» e «She's crazy for leavin» e molti suoi brani sono stati interpretati da alcuni dei maggiori artisti country e non. È schivo e modesto, ama il suo lavoro ma nasconde il suo ego, scrive quando ne ha voglia e pubblica i dischi di conseguenza, questo spiega gli otto dischi in venti anni: non è certo prolifico, ma questo è l'ultimo dei suoi difetti, infatti quando esce un suo disco si può essere sicuri che ci troviamo davanti ad un lavoro serio e ben fatto. Ha uno stile suo, una sorta di narrazione lenta e discorsiva, su cui la musica scorre scarna e tenue, senza forzamenti di sorta, senza alzare quasi mai il volume: Guy è uno degli originali, non assomiglia a nessuno, casomai sono gli altri che gli rubano questo riff o quel passaggio vocale.
Figlio di un avvocato, Guy è nato nella città desertica di Monahanas e, fin da giovane, gli è stato insegnato a rispettare ed amare la melodia della parola; da questo insegnamento giovanile nasce la sua dicotomia sonora, il suo scandire le parole, il suo semplice eloquio che lascia le parole sempre al posto giusto e la musica negli spazi da riempire, «Dublin blues» è meno mosso di «Boats to build», più lento, meditato, direi raccontato, ma conserva quell'alone di magia, quella particolare tipologia che è unica, anche in un mondo così battuto come quello della musica country: «Io ho una mia idea riguardo a quello che penso sia una buona canzone» racconta Clark «una delle cose che ho sempre cercato di fare è vedere se le parole funzionano bene sulla carta, prima di metterle in musica: se stanno in piedi da sole si può costruire una buona canzone». Dieci canzoni, dieci piccoli acquarelli, dieci racconti a sé stanti: questo è «Dublin blues» un disco tanto semplice quanto profondo, tanto bello quanto unico.