RICHARD BUCKNER (Devotion & Doubt)
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  Recensione del  30/01/2004
    

Richard Buckner, texano, è uno con la carta d'identità segnata. Il mensile USA Spin lo ha definito la sua musica «qualcosa tra il folk texano di Butch Hancock e Townes Van Zandt ed il country rock di Los Angeles di Gram Parsons». Un paragone che pesa, ma, che, indubbiamente, calza a pennello. Bucker non è il solito cantautore, ma un musicista che medita, che si arrovella, che costruisce la sua musica cesellando le parole, mettendole una per una nelle sue melodie.
«La Carter Family scriveva della propria casa a Clinch Mountain» racconta lo stessso Buckner «Io scrivo di quando ho perso il bus». No, non è un controsenso: la musica di Richard è fatta di piccole cose, di storie insignificanti, di provincia piccola piccola: racconti radi, spogli, come le lande attorno a Lubbock, racconti desertici, con sprazzi di musica ed una voce, che si specchia in sé stessa, a raccontare. Non è il solito texano, la sua musica non è assolutamente tipica: la somiglianzà con Van Zandt è più testuale che musicale, il paragone con Hancock e Parsons calza più per la figura che per quanto poi accade su disco.
Già con il suo esordio del 1994, «Bloomed», Richard Buckner aveva mostrato di che pasta era fatta la sua musica: quel dischetto, prodotto da Lloyd Maines e con Butch, Ponty ed altri amici di Austin in sessione, ci aveva rivelato un folk-singer malinconico, venato di country, con l'anima del poeta. Ed ora, a tre anni di distanza, ecco il nuovo album, «Devotion & doubt», pubblicato da una major, la MCA, ma ancora più spoglio e inferiore del lavoro d'esordio.
Buckner non cerca il facile plauso, né di colpire al primo ascolto: richiede tempo, pazienza, ma, alla fine, soddisfa appieno chi va alla ricerca di sonorità intimiste, di musica che, ascolto dopo ascolto, riesce a regalare sempre più emozioni. Musica che sorprende, che, di punto in bianco si spegne e si riaccende, musica che, comunque la si voglia osservare, lascia il segno. Buckner, per questo nuovo lavoro, si è circondato di strumentisti meno conosciuti, rispetto al disco d'esordio: infatti, con la produzione attenta di J.D. Foster, troviamo Richard Brotherton, Joey Burns, John David Foster (il producer), Howe Gelb, Champ Hood, Llloyd Maines (l'unico rimasto) e Mare Ribot. Oriente ed occidente a confronto: Ribot e Maines, gli estremi del rock, riuniti in un disco amaro, poco propenso ad essere acclamato da folle plaudenti, sicuramente adatto ai palati più attenti.
Disco che però ha una sua anima, una sua profondità, una sua logica: Buckner segue le orme dei grandi cantautori americani e lascia scorrere la sua voce su una serie di canzoni malinconiche e descrittive, piene di pause e riflessioni, con rari interventi strumentali ed una struttura volutamente spoglia. «Devotion & doubt» è un lavoro profondo ed affascinante, un lavoro che ha il senso della desolazione, che mostra affezione per la «musica delle montagne», che ricorda il Texas e l'Oklahoma, malgrado le origini dell'autore siano californiane (è nato infatti a San Francisco). Novello Woody Guthrie (ascoltate «Fater») Richard ha il senso metrico del cantautore e sa fondere con indubbia abilità melodie sferzate dal vento con uno script che ha il senso dell'immagine.