Se com'è probabile vi state chiedendo chi è quel tizio in copertina che pare abbia ingoiato un frigorifero e perché mai costui si trovi a incidere per una major, be', sappiate che il destreggiarsi pur avendo le dimensioni di un armadio a muro non è davvero l'unico problema di
James Otto. Questo
Days Of Our Lives era un disco di cui tra gli addetti ai lavori si parlava da tempo: perché Jimmy era stato messo sotto contratto dalla potente Mercury sulla scorta di un semplice demo, certo, ma soprattutto perché le sessions d'incisione si sono trascinate per quasi due anni e mezzo.
Cambi di produttori, canzoni fatte e disfatte, arrangiamenti prima azzerati e poi imposti dall'alto; il risultato è frutto evidente di diversi compromessi. Con la faccia e la voce (ricordate Travis Tritt?) che si ritrova, Jimmy dev'essere un good ol'boy cresciuto nella venerazione di Bob Seger, Marshall Tucker e sudisti assortiti. Eppure, a giudicare dalle dodici canzoni di
Days Of Our Lives, ci dev'essere stato qualcuno che l'ha costretto a ritagliarsi un poco convinto ruolo da countryman svenevole, di quelli che a Nashville vi regalano dal verduraio al posto degli odori.
Si tratta di un particolare piuttosto evidente nelle ballate -
Misspent Youth, Song Of The Violin e She Knows le più risapute - che il nostro inanella senza purtroppo saperle dotare non dico di adeguati guizzi d'originalità, ma perlomeno di linee melodiche in grado di farsi ricordare dopo il trentesimo ascolto: troppi archi, scarsa convinzione, pathos interpretativo pressoché assente. Fa eccezione l'ottima, conclusiva
Never Say Goodbye, dove però gioca un ruolo essenziale il pianoforte ciondolante del sempre inappuntabile
Chuck Leavell.
Di turnisti da categoria cadetta, del resto, abbonda l'intero album, da un drummer di pestata efficacia quale
Greg Morrow ai virtuosismi alla steel-guitar di
Dan Dugmore passando per la cattivissima chitarra solista di
Pat Buchanan. Il loro gioco di squadra funziona alla grande nei pezzi più tirati, che sono la vera anima del disco e il motivo per il quale un ascolto fareste bene a concederglielo: stupenda è
Miss Temptation, un poderoso rock-blues d'altri tempi il cui unico difetto è quello di durare troppo poco, così come ottimi sono pure i boogie ottusi e stradaioli di
Sunday Morning & Saturday Night e Long Way Down o il serrato drive skynyrdsiano di
The Last Thing I Do.
Insomma, il talento di
James Otto, seppur annacquato, riesce comunque a emergere, e speriamo che alla prossima occasione nessuno cerchi d'imbrigliarlo ulteriormente. Perché sarebbe l'ennesima replica di un film che abbiamo già visto troppe volte.