EDWIN McCAIN (Scream & Whisper)
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  Recensione del  16/11/2004
    

Nella carriera oramai decennale di Edwin McCain, ex-pupillo della multinazionale Atlantic, non si può dire che Scream & Whisper - il primo album realizzato in condizioni di totale indipendenza - rappresenti chissà quale scarto o rivoluzione stilistica. Assomiglia anzi non poco ai 5 dischi che l'hanno preceduto, i quali a loro volta tendevano ad assomigliarsi un po' tutti tra di loro, e questo non è necessariamente un male: può significare sì che la vena creativa risulta piuttosto piatta, ma anche che si è depositari di un suono immediatamente riconoscibile, e nel caso di Edwin propenderei per la seconda ipotesi.
Lascio ad altri il compito di indicare il migliore del lotto (io resto molto legato all'esordio del 1995, Honor Among Thieves, se non altro in virtù di un'accorata rilettura della Guinnevere di David Crosby), sottolineando però che in questo nuovo album il giovane Edwin sembra aver trovato la misura perfetta della sua musica. Già a partire dalla copertina, ove si trovano giustapposte una vissuta sei corde e un altrettanto provato legno acustico, troviamo un'indicazione pressoché perfetta di quelli che saranno i contenuti: classico rock made in USA, guitar-driven ma senza esagerazioni, né troppo cattivo né troppo intimista. Rock, ballate, ritornelli "catchy", testi improntati a una spiritualità talvolta un po' indigesta (leggete le liriche di Farewell To Tinkerbell, alla lettera "Addio a Campanellino"… sì, proprio la fatina di Peter Pan!), la garbata malinconia del sax di Craig Shields, qualche tirato assolo del chitarrista Larry Chaney e il drumming sopraffino di Dave Harrison, il tutto immerso in una dimensione elettroacustica talvolta assimilabile ai suoni di formazioni quali Sister Hazel o Satchel's Pawn Shop, talvolta più orientata allo struggimento tra pop e country-rock degli ultimi Counting Crows.
Il gioco funziona alla grande in quegli episodi - Coming Down, l'eccellente Save The Rain - in cui la band acconsente a lasciarsi andare e non ha paura di risultare sporca e rockinrollistica come se fosse appena sbucata dal garage sottocasa, un po' meno in certe parentesi (mi riferisco alle varie Day Will Never Come, How Can You Say That To Me, Say Anything etc.) in cui il songwriting da intimista tende a tramutarsi in lezioso. Peccatuccio veniale, ad ogni buon conto, ché a veri e propri capolavori di scrittura quali Throw It All Away, Wild At Heart, White Crosses e soprattutto Couldn't Love You More, da qualche parte tra James Taylor e John Gorka, non si può davvero chiedere molto di più.
Stupisce, per contro, la carica virulenta del brano di chiusura, una roboante versione della classica, favolosa Maggie May di Rod Stewart scaraventata in una baraonda rock degna dei migliori Stones o degli stessi Faces. Preludio a qualche succoso cambio di direzione per il futuro? Chissà, non è mai troppo tardi per scoprirsi grandi rockers, nemmeno al settimo disco. Giusto, Edwin?