ARTHUR DODGE & THE HORSEFEATHERS (Room #4)
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  Recensione del  16/11/2004
    

Uno sguardo veloce alla carriera di Arthur Dodge (quattro dischi in otto anni non sono poi molti) da esattamente la dimensione del suo songwriting, che ha compiuto un balzo in avanti davvero notevole per un rocker di provincia (Lawrence, Kansas) partito con un country-rock robusto e chitarristico, spesso dai risvolti southern, ma presto trasformatosi in un cantautore dalle preferenze più articolate.
Room #4 si può ben definire il suo disco più personale e riuscito da quando ha deciso di mollare la presa degli amplificatori, cercando una strada più autorale ed elegante per la sue armonie "compromesse" con gli anni settanta. Rispetto al precedente Nervous Habit, ormai lontano di quattro stagioni, i miglioramenti si notano a vista d'occhio: più dimistichezza con le canzoni, uno stile che comincia ad assumere contorni precisi e la giusta convinzione nei propri mezzi.
La conferma della formula cantautore con band alle spalle, gli Horsefeathers, ha contribuito certamente a rafforzare il materiale del nuovo disco, il secondo a godere dell'appoggio Blue Rose. Matt Mozier, chitarre e cori, è in sostanza l'unico amico rimasto fedele fin dalla prima ora, spalla ideale per mantenere i legami col passato, anche se l'inserimento di David Swenson (piano, organo) è la chiave di volta che trasforma Room #4 in un disco di ballate rock notturne e bluesy, con la voce increspata di Dodge che può finalmente mettere in risalto la sua vena da crooner.
Lui stesso si definisce una Creature of the Night, brano degno del Randy Newman più elettrico, guidato dall'organo wurlitzer di Swenson: è impossibile infatti non notare il forte ascendente che certo cantautorato californiano dei seventies possiede sulla scrittura di Dodge. In Hustlin' California basterebbe il titolo, ma ci sono anche il passo vellutato di Hung On, i chiaroscuri di Carry Me e la classe di Sister Played Piano a riprendere con insistenza queste scelte stilitiche. Gli strascichi più strettamente rurali delle sue radici compaiono ancora nell'apertura di Gates, che tuttavia si accolla un sounthern feeling lontano dagli esordi roots dei primi dischi.
Solo Let My Reach Exeed My Grasp riporta veramente a galla il country-rock degli esordi, facendo capire che Arthur Dodge è oggi meno interessato a ripetere con ossequio la lezione di Neil Young & Crazy Horse per inseguire un folk-rock pastorale più attento alle sfumature (My Baby's in My Town) inframmezzato da romantiche ballate (Wormhole, Tell) che sono la colonna sonora ideale per chiunque abbia un cuore spezzato. Un piccola lezione di classe.