Un'altra nuova band all'esordio, sia su queste pagine che discograficamente parlando: i
Naked Omaha non provengono dal Nebraska, come il loro strano nome potrebbe far pensare, bensì da Philadelphia. Il loro debut album,
Bet è autoprodotto ed autodistribuito (i quattro nomi che compongono l'etichetta non sono presi da uno studio di avvocati di un romanzo di Grisham, ma sono i nomi dei quattro componenti della band):
Dan DeLeon è chitarrista e voce solista, come anche
Paul Edelman (ed i due hanno voci molto simili, in quanto non si notano grandi differenze tra una canzone e l'altra),
Steve Kirsh è il batterista e
Walt Collins il bassista.
Queste sono le scarsissime informazioni di cui dispongo: le uniche altre cose accluse al CD sono i titoli degli undici brani ed una lista di ringraziamenti lunga come la Quaresima; perfino su internet non ho trovato nulla. Non che abbia grossi problemi: ciò che conta, come al solito, sono la musica e le canzoni, e qui di belle canzoni ce n'è più di una. I
Naked Omaha sono una roots band classica, con un ottimo sound chitarristico, sulla scia di precursori come gli
Uncle Tupelo; le influenze includono certamente anche
Neil Young e Gram Parsons (personaggio al quale tantissimi musicisti dovrebbero erigere un monumento).
Brani corposi, venati di country, ballate classiche e fiere, con un piglio chitarristico che da alla band un tocco sicuramente personale. L'opening track è
Skeleton Crew, una ballata rurale elettrica, molto
Son Volt (la voce ricorda quella di Farrar), con un ritornello azzeccato.
Down time ha lo stesso train di base, ma un lavoro chitarristico ancora migliore: sembra adatta ad essere suonata dal vivo;
Diesel river cambia completamente registro: è una country ballaci, una piccola gemma elettroacustica, dalle sonorità languide e dalla melodia rilassata (curiosi gli accenni di yodel). Di seguito troviamo la bella e suggestiva
Steeplejack che è come se Neil Young avesse riscritto
Cortez the killer con il povero Gram Parsons: da sentire.
Stronghold è puro roots'n'roll: chitarre toste e voce in palla; la corale
Gone sembra quasi un canto tradizionale con base elettrificata.
I ragazzi sanno comporre, oltre che suonare: conoscono la tradizione ed i classici, riuscendo comunque ad essere personali.
Mind for murder è lenta ed ancora parsoniana, la mossa
Dry dock è la meno appariscente del disco, la lunga
The neck è un brano interiore, molto cantautorale, di spessore e sostanza.
Wayside è veloce e spigliata, mentre la conclusiva
Upper Darby acre è una splendida oasi acustica ricca di feeling. Un buon esordio, un'altra giovane band su cui contare in futuro.