Capita spesso di trovarsi faccia a faccia con dischi misteriosi, che si lasciano scoprire a fatica, altre volte invece si incontrano titoli e copertine che hanno un sapore familiare, lasciando sul campo ogni minima traccia del loro passato, svelando in anticipo i contenuti musicali. Esiste infatti un fascino dichiaratamente roots e fuorilegge nell'immagine di copertina di
Mulberry Squeezins, due vecchi marpioni alle prese con una distilleria clandestina in qualche sperduto bosco della provincia statunitense: un'idea di America un po' fuori moda, storie sconosciute alle grandi metropoli, che vive dei ricordi della Grande Depressione e di una country music che sbuffa e ringhia dirigendosi verso il cuore delle chitarre.
I
Mooshine Hangover si sono scelti un'iconografia un po' scontata forse, ma hanno un nome tra i più beffardi che una roots band si potesse scegliere e che non lascia dubbi sui loro vizi notturni: i postumi della loro sbronza al chiaro di luna hanno generato un "distillato di more" che mischia gli umori della confederazione sudista con gli echi del suono alternative-country. Questi quattro ribelli del country-rock arrivano dalla fervida scena cittadina di Portland, Oregon, ma sembrano in realtà aver masticato una massiccia dose di southern band, qualche vecchio vinile di Merle Haggard e molto rock'n'roll dal taglio tradizionale e periferico.
Prodotto in maniera del tutto informale, come richiede d'altronde il budget ridotto e la filosofia stessa di questi gruppi di provincia, da
Paul Brainard, musicista conosciuto per il suo lavoro con un'altra roots band, i Richmond Fontaine,
Mulberry Squeezins è un esordio acerbo e ruspante, che alza un buon boccale di birra alla salute del rock'n'roll, senza curarsi troppo delle rifiniture.
Troy Henning e Kris Stuart si alternano alle voci soliste e aile chitarre, guidando un solido quartetto costruito sulle certezze del country-rock più alcolico che ci sia.
For Real, Chattahoochie, le ringhiose
Roadhouse Prophet e Thought It Up & Down non hanno particolari novità da mettere in mostra, ma una convincente artiglieria di chitarre che mischia il Sud della Marshall Tucker Band e il cow-punk dei primi Bottle Rockets, fregandosene delle belle maniere.
Una ricetta che rischia di apparire monocorde, se non arrivassero in soccorso certi sconfinamenti in campo bluegrass e alcune spruzzate di melodia (ottima la cover di
Cocaine Parties dal repertorio degli Star Room Boys). È il volto più scanzonato e sincero dei Moonshine Hangover:
Swamp Song corre e sbuffa per la prateria,
Sorry Buck la segue di una lunghezza e
Woe Is Me aggiunge mandolino e dobro sconfinando nel puro old-time. Non saranno dei geni, ma sono pronto a scommettere che visti su un palco di qualche locale dell'Oregon vi faranno consumare un patrimonio in birra.