TRAVIS TRITT (My Honky Tonk History)
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  Recensione del  21/10/2004
    

Nuovo album per Travis Tritt (il nono in totale, antologie escluse) e nuova convincente prova per questo ragazzone della Geòrgia, cresciuto a pane, country music e southern rock. My Honky Tonk History segue a due anni di distanza Strong Enough, e si candida senza dubbio ad essere considerato uno dei lavori più riusciti del nostro. Tritt (ben noto su queste pagine), è un countryman atipico, che condisce spesso i volentieri i suoi brani con sonorità molto elettriche, ma non alla maniera di Dwight Yoakam (che è comunque legato alla tradizione), ma più come se fosse un vero outlaw texano o un frontman di una band sudista.
Suoni veri, anche nelle ballate più prettamente country, canzoni solide (Travis scrive poco, si serve più che altro dei migliori songwriters made in Nashville), voce maschia: i suoi modelli sono Hank Williams Jr., Waylon Jennings o storici gruppi del Sud con un particolare riguardo verso la musica country, come Amazing Rhythm Aces o Marshall Tucker Band. Tutti i suoi dischi sono di buon livello, non farà mai il capolavoro ma neanche il disco brutto (un po' il discorso di gente come Thorogood o McClinton, sai già cosa aspettarti e non rimani mai deluso): My Honky Tonk History si pone, come già detto, tra i suoi più validi. Accompagnano Tritt affermati sessionmen quali John Jarvis, Reggie Young, Billy Joe Walker Jr. (che è anche il produttore), e Pat Buchanan, oltre al noto Bela Fleck al banjo in un brano e, udite udite, nientemeno che l'ex couguaro John Mellencamp a duettare bravamente con Travis in What say you.
La title track apre il disco in maniera roboante: dopo una breve introduzione per solo piano (un piano da saloon) inizia il brano vero e proprio, con un potente intra di chitarra e una sezione ritmica dura come l'acciaio. Travis canta con la sua voce possente un brano che avrebbe potuto essere dei Lynyrd Skynyrd (ma non quelli metal di oggi). Too far to turn around è una ballatona dalle sonorità anni settanta, molto poco nashvilliana (anche se tutto il disco è inciso nella metropoli del Tennessee) e molto Alabama-sounding; The girl's gone wild (che è anche il primo singolo) è un veloce rock'n'roll boogie, immediato e diretto come un pugno nello stomaco, uno di quei brani con cui il nostro va a nozze.
Ed è la volta di What say you, il brano con Mellencamp: l'intro elettroacustico e la melodia sembrano proprio tipiche di una canzone del rocker dell'Indiana (periodo Lonesome Jubilee, in quanto ci sono anche banjo e violini).
Il Puma è in forma, e nobilita il duetto con la sua voce carismatica. È il secondo singolo, e potrebbe essere il pezzo giusto per rilanciare commercialmente la carriera di Mellencamp. Circus leaving town è un classico e malinconico lentaccio country, a cui il vocione di Tritt da quel quid in più; la bella e pianistica Monkey Around, scritta dal già citato Delbert McClinton, ha il classico passo del musicista texano, a metà tra errebi, soul e blues.
Uno degli highlights del disco. La dolce I see me ha un arrangiamento un po' troppo soft, meglio la pulsante ed elettrica When good ol' boys go bad o la tenue e limpida We've had it all, unico brano scritto da Tritt (a quattro mani con Marty Stuart), sicuramente la migliore ballata dell'album, una melodia di sapore antico. La sudista e roccata It's all about the money e Small doses, altro gradevole lento, preludono alla finale When in Rome, aggressiva, tosta, solida, con l'influenza di Waylon Jennings ben presente.