CHARLIE ROBISON (Good Times)
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  Recensione del  21/10/2004
    

Nuovo album in studio per Charlie Robison, texano doc e fratello di Bruce, un anno dopo l'eccellente prova live, chiara dimostrazione di come un cantautore del Lone Star State considerato country si trasformi non appena sale su di un palco, proponendo le stesse canzoni incise in studio in una veste molto più rockeggiante e tirata (un po' come il fratello Bruce o Jack Ingram, e non a caso i tre hanno pubblicato nel 2000 un live congiunto, intitolato Unleashed). Good Times, questo il titolo del nuovo lavoro, viene tre anni dopo Step right up e sei dopo Life of the party, candidandosi senza dubbio ad essere eletto il migliore dei tre.
Charlie è un fior di musicista, sa scrivere ballate sapide e rock song di grande consistenza, sceglie le covers con intelligenza, ha le influenze giuste (Guy Clark su tutti, ma anche Waylon, Steve Earle, Jerry Jeff Walker e Terry Allen) e si circonda di musicisti di tutto rispetto (tra i sessionmen troviamo le nostre vecchie conoscenze Glenn Fukunaga e David Grissom, entrambi ex Joe Ely Band, oltre al fratello Bruce, a Natalie Maines, voce solista delle Dixie Chicks, ed allo steel guitar maestro Paul Franklin). Se aggiungiamo che a produrre il tutto c'è il padre di Natalie, e cioè quel maestro che non ha bisogno di presentazioni di Lloyd Maines, e che Robison riesce a mettere insieme undici brani di ottima caratura, capirete perché Good Times merita la vostra considerazione.
Charlie è dotato di una voce espressiva, è in possesso di una scrittura epica e solida e ha il giusto feeling: non serve altro per fare un bel disco! Si parte alla grande con la solida Good Times, ruvida ballata tra folk e rock, cadenzata e coinvolgente, che ricorda certe cose di Todd Snider, e ha un finale di grande impatto emotivo, con piano, chitarre elettriche (Grissom) e mandolino che si rincorrono a suon di assoli. New Year's day è splendida: una story song epica, come solo i texani sanno scrivere, dalle tonalità western e con Jerry Jeff nella mente.
Alla fine risulterà una delle migliori del lotto. El Cerrito Place è una languida ballatona, priva però di artifici ed orpelli made in Nashville (qui siamo ad Austin, perdio, e la mano di Maines si sente e come!); Big city blues è, come suggerisce il titolo, un countraccio imbastardito col blues, con rimandi allo stile di Robert Earl Keen e soprattutto di Guy Clark. The bottom è ancora un lento, senza particolari sussulti, lineare ma banalotto, ma ci pensa Love means never having to say you're hungry, uno scintillante honky tonk blues dal passo strascicato e dal grande feeling, a rimettere le cose a posto. Superlativo il lavoro al piano di Riley Osbourn. Photograph (Ringo Starr non c'entra) è un'altra ballata, stavolta pienamente riuscita, con una bella melodia di stampo tradizionale e sonorità classiche; Something in the water è una limpida Texas song, ancora con Clark in testa, mentre Always è una ballad perfetta da ascoltare al crepuscolo, quando la prateria è in silenzio ed i cavalli sono nella stalla (forse mi sono lasciato prendere un po' la mano...).
Flatland Boogie è una splendida cover di un brano di Terry Allen (era su Human Remains), che conserva il sapore squisitamente tex-mex dell'autore: senza voler nulla togliere al Charlie Robison autore, forse il miglior pezzo dell'album. Magnolia chiude il CD con un gentile acquarello acustico, giusto a metà tra country e folk. In definitiva, un gran bel disco da parte di uno degli esponenti di punta del New Texas Breed. Good news from the Lone Star State!