JESSE MALIN (The Heat)
Discografia border=Pelle

        

  Recensione del  09/09/2004
    

Jesse Malin, protegè di pr Ryan Adams, è balzato alle cronache con The Fine Art Of Self Destruction, primo suo album solista dopo anni di punk coi D Generation. Prodotto da Ryan Adams, quell'album metteva in risalto un rock d'autore in bilico tra rasoiate elettriche da CBGB e storie metropolitane autodistruttive, condite con quel pizzico di romanticismo da far sognare la New York degli anni 70. In tempi carenti di simili rock-writers, La Fine Arte dell'autodistruzione ha destato scalpore e mosso le acque e Malin è finito con una buona versione di Hungry Heart nel tributo a Springsteen di Light Of Day, guadagnandosi una lunga e illuminante intervista sulla bibbia dei fans di Bruce, Backstreets e poi si è conquistato un'attenzione che da New York è arrivata fino in Europa.
C'era quindi attesa per il nuovo disco e The Heat non delude le aspettative, anzi conferma le belle impressioni dell'esordio e le amplifica. Se comparato, ad esempio, a Rock n' Roll dell'amico Adams è molto meglio, The Heat difatti non è un disco ruffiano atto ad ingraziarsi la stampa a la page ma un lavoro solido, dove convivono ballate lunatiche e introverse con sferzanti colpi di durezza metropolitana, dove le composizioni sono mature e personali e gli strumenti graffiano un sound elettrico che è l'anima della New York rock.. Permeate da un nuovo esistenzialismo urbano che ha assorbito sia il romanticismo di vecchia scuola newyorchese sia un certo atteggiamento disincantato e moderno nel vivere la città e le sue storie, le canzoni di Heat si pongono come un ideale ponte tra il vecchio songwriting degli anni '70 e '80 e gli umori contorti dalla generazione post-Jeff Buckley.
Per tale ragione il disco può piacere sia al pubblico che ama Springsteen e i rock-writers di scuola classica sia quello che "ha visto la luce " con Jeff Buckley e oggi è alla spasmodica ricerca dei suoi epigoni. Una scrittura inquieta, ricca di flash e di immagini frammentarie, frutto di un mondo un po' schizofrenico di vedere la realtà, liriche che assorbono i segnali della città e aprono la porta più che indicare la via, suoni e canzoni che si dibattono tra ballate malinconiche e perse nel vuoto e chitarre che sembrano colpi di frusta, The Heat è rabbia ed estasi nella New York senza torri del 2004.
Nelle sue tracce potete trovare frammenti di punk e di Clash, rumori di Sonic Youth e asprezze da CBGB ma anche aperture positive alla Springsteen, il caustico Costello degli esordi, un pizzico di power pop e gente dimenticata come Marshall Crenshaw e Mike Rimbaud. Naturalmente anche Ryan Adams, che questa volta non fa da produttore (è lo stesso Malin a fare tutto) ma interviene con chitarre e tastiere e il cui stile lo si sente un po' ovunque. In possesso di una voce che non concede grandi variazioni sul tema, piuttosto monocorde e cantilenante, Malin usa e ribalta questi limiti creando una lamentosa confessione sulla durezza del vivere, sulla sporadicità dei momenti felici, sulla vacuità delle relazioni umane, sull'alienazione della città, sulle solitudini, sui caffè e le sigarette, su Manhattan, citando Tennessee Williams, l'11 settembre, Mona Lisa, Amsterdam, Satellite Of Love di Lou Reed, il nuovo ordine mondiale, i nazisti e Chet Baker, Gesù e la CNN, in una serie di schizzi di poetico realismo urbano.
Già l'apertura del disco è sintomatica degli umori e dei caratteri del mondo di Malin con Steve che vende marijuana ad Uptown alle primedonne, aspettando il talento locale e bevendo come Shane Me Gowan. Da subito si è catapultati in uno scenario quasi filmico dove la cultura pop si mischia alle immagini urbane in un quadro pulp di assurdità, incongruenze, piccole bellezze e grandi disagi. Mona Lisa, titolo guarda caso già usato da Graham Parker, da il via a The Heat con una melodia e un refrain che non lasciano scampo, il ritmo è arrembante e una chitarra acustica corre davanti agli strumenti elettrici.
La seguente Swinging Man si addentra senza timore nei paesaggi del New York sound, la voce oscilla tra il disperato e il cinico mentre le chitarre elettriche rumoreggiano come fosse una rock n'roll band della suburbia. Ma il suono è pulito, gli elementi punk sono filtrati dentro una produzione che mira all'essenziale senza appellarsi alle distorsioni e alle frizioni elettroniche oggi di moda, i musicisti (una lunga fila di sessionmen e amici) agitano un sound secco, chitarristico ed energico.
Le canzoni non hanno vita effimera, sia le ballate costruite al piano (Going Out West, Block Island, Basement Home) che ricordano gli umori autunnali dell'Adams di Love Is Hell che le imbambolate cantilene pseudo-psichedeliche tipo Silver Manhattan che non disdegnano un po' di rumorismo avant-guarde, sia le melodie di Arrested e Hotel Columbia che cominciano ariose e poi si tramutano in tempesta di chitarre elettriche o in rabbia alla Clash (Scars Of Love) che le dolcezze di Since Your In Love, svelano i loro segreti poco per volta facendo affiorare un calore e quel senso di duro e tenero che al rock di New York mancavano da un po' di tempo. Se vi è piaciuto Gold non potete trascurare The Heat, Jesse Malin è il nuovo angelo in cuoio nero di Alphabet City..