ERIC ATHEY (Open House)
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  Recensione del  09/09/2004
    

Indizi niente affatto trascurabili nell'esordio di Eric Athey, soprattutto per tutti gli irriducibili adoratori del suono "no depression". Se avete nostalgia del buon vecchio suono alternativecountry, di quel rootsrock elettrico, provinciale e dal basso profilo che ha fatto scuola dopo la venuta degli Uncle Tupelo, allora concedete una chance a questo sconosciuto songwriter di Lancaster, Pennsylvania. Potreste scoprire infatti un piacevole quanto onesto surrogato in questo Open House, progetto portato a termine con dedizione ed una lunga gavetta (Athey non è più giovanissimo e pare che le canzoni gli girassero per la testa da vent'anni).
Una bella rimpatriata del genere, calcando la mano su quel country-rock dai tratti malinconici e sovente attraversato da pulsazioni elettriche che ha fatto la fortuna di una band come i Son Volt di Jay Farrar. Per uno che proviene dalla sperduta periferia americana il paragone regge a meraviglia, specialmente se rafforzato dalla presenza importante di musicisti come Dave Boquist (chitarre, lap steel, dobro e mandolino), già tassello insostituibile proprio dei citati Son Volt e in questa occasione fine cesellatore di pregevoli sonorità a tema roots.
Non è il solo compagno d'avventure: il fratello Mark Boquist (già avvistato con gli ottimi 34 Satellite) picchia come un ossesso sulla batteria e coadiuva una produzione assolutamente a budget ridotto, come si conviene alla materia, mentre Jan Nigro offre qualche contrappunto all'organo. Il nostro Eric Athey riempie l'aria con la sua voce un po' strozzata e le sue ballate da autentico outsiders. Tra le sue principali fonti di ispirazione cita, non senza fare un poco di confusione, Tim Hardin, Kris Kristofferson e persino Clash e Blasters, ma gli up&down di Matter of Time e Home Tonight, quasi volutamente contrapposte in apertura e chiusura del disco, possiedono un fascino decisamente alternative-country, scorrevole rock delle radici che risveglierà ricordi sopiti in tempi recenti.
Nel mezzo stazionano i poli opposti del songwriting di Athey: qualche roots-rock di grana grossa (Poison, con l'imprevista comparsa del sax di Ken Zeserson oppure la bluesy Devil in The House) e parecchie ballate dal cuore tenero (It's My Life) e dall'anima country-folk che ricordano da vicino gli indimenticati canadesi Blue Rodeo, soprattutto quelli acustici e riflessivi di Five Days in July (Habits Die Slow, The Strongest Walls). La sensazione che attraversa l'intero Open House è dunque quella di un forte "dejà vù", qualche episodio zoppica vistosamente, ma nell'insieme Eric Athey tiene fede alle premesse di nobile cantore della provincia.