STEVE OWEN (The Turlock 2)
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  Recensione del  09/09/2004
    

Giunto al suo quarto album, Steve Owen rappresenta nel migliore dei modi una categoria di cantautori da preservare gelosamente, custode esemplare di una tradizione che resiste alle intemperie del tempo e delle mode. Originario deirillinois, ma californiano di adozione, Owen si fa notare nel 1998 con l'album Quality Used Parts, un disco che rivela le ottime doti di songwriting di un autore di stampo tradizionale, dotato di una vena lirica ironica e tagliente, molto spesso amara, che a tratti ricorda il migliore John Prine in chiave più strettamente country-folk.
A questo segue l'ottimo Like an Atheist in Nashville (2001), che già nel titolo adombra la sua poetica scarna ed essenziale, lontana anni luce dai fasti dei canoni musicali imperanti in quella città. The Turlock 2 ci mostra chiaramente le ottime qualità di scrittura dell'autore, e fa delle liriche il suo punto di forza, all'insegna di un arrangiamento minimale e di una sezione ritmica ridotta all'osso. Prodotto dallo stesso Owen, l'album si avvale della collaborazione dell'inseparabile Patrick Conway, che lo aiuta in fase di registrazione, di David Reid e di Kurt Stevenson (chitarre, basso, mandolino, piano, dobro e violino).
La tradizione segna i passi dell'intero album e ci pone di fronte ad un artista sincero e autentico che traccia le sue coordinate di riferimento in Jimmie Rodgers, Hank Williams fino al Dwight Yoakam dei giorni nostri. Nell'album è presente un'ottima cover di Paul Westerberg, Skyway, che si pone tra i pezzi più riusciti di una sequenza che si muove all'insegna del più puro country-folk, dall'iniziale Close Enough to Shore, perfetta allusione alla condizione "di mezzo" in cui spesso ci muoviamo (I'm close enough to shore / to know I'm too far out at sea"), alla bella e amara Harry Fogelberg's Blues, dalla polverosa ed emblematica Alcohol & Power Tools, eseguita addirittura in due versioni, al bluegrass di Today is the Day, dal blues di I'm Sorry Jimmie Rodgers, perfetto omaggio al grande folksinger del passato (...I hate trains...), alla dolce e malinconica Far From Here, sino al bel pezzo di chiusura, What Makes the World go Round?, che si scioglie al suono triste di un banjo accompagnato dalla voce roca e sofferta dell'autore, il tutto a conferma delle radici rurali (in questo caso vi sono forti accenti della tradizione appalachiana) sulle quali Owen poggia la sua scrittura.
Il brano, perfetto esempio della capacità compositiva di Owen, è un'oscura, laconica e amara presa di coscienza di uno stato d'animo abbastanza comune, e cioè che niente ci può permettere di andare avanti se non la mancata conoscenza e forse la necessità di non sapere (but not knowing better is what makes thè world go round). Tutto l'album sembra pervaso dalla constatazione che la vita si muove sui binari dell'incertezza di un terreno sempre instabile, in cui sono le semplici emozioni ed i valori veri a poterne esprimere il senso più profondo.
Uno dei limiti del disco è la durata, appena 35 minuti con un brano eseguito in due versioni. Forse manca qualcosa, l'album è musicalmente un po' monocorde, sembra talvolta che le capacità espressive dell'autore siano messe a freno dagli schemi un po' troppo rigidi entro i quali si muove. Le aspettative per questo autore lasciavano presagire qualcosa in più, ma vi sono alcuni brani degni dì nota, e l'autore merita estrema attenzione, se non altro per le splendide liriche che donano grazia e profondità alle sue poesie in musica.