COLIN GILMORE (The Day The World Stopped And Spun The Other Way)
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  Recensione del  09/09/2004
    

Se lì per lì il nome di Colin Gilmore non mi aveva detto niente, dopo una ricerca ho scoperto che egli è nientemeno che il figlio di Jimmle Dale Gilmore, artista ben noto su queste pagine, cantautore texano compagno di scorribande di Joe Ely e Butch Hancock nei Flatlanders, oltre che titolare di una carriera solista di tutto rispetto.
La seconda sorpresa, ben più importante, è venuta quando ho messo il dischetto nel lettore: The day the world stopped and spun the other way è un esordio di tutto rispetto, un primo album (Colin ha alle spalle solo un Ep con quattro brani) di quelli che lasciano a bocca aperta. Colin non ha molto in comune con il più celebre padre (e di sicuro non la voce, per fortuna), e le sue influenze escono anche dai confini del Lone Star State: certo, Gilmore Jr. è cresciuto a pane, Joe Ely e Terry Allen, ma la sua musica deve molto anche a gente come Dave Edmunds, Nick Lowe, persino ai Clash.
Un disco molto vario, non molto texano nei suoni (tranne qualche riferimento qua e là), con sprazzi di pop, rock'n'roll, country e chi più ne ha più ne metta. In poche parole: good time music (un paragone che mi viene in mente è Walter Clevenger, Colin ha la stessa verve e la stessa freschezza). Accompagnano Colin in questo esordio bravi musicisti che rispondono ai nomi di Rob Gjersoe, Rob Hooper, Bukka Allen (già nella band di Jack Ingram), Audray Auld e Kris Nelson, oltre al produttore Mark Hallman, che da al disco un suono compatto, diretto e lineare. Apre Good times stay, introdotta da una splendida fisarmonica: una limpida ballata rurale e bucolica, che richiama addirittura certe cose della Band, con una melodia pulita e diretta.
Slippin' è più elettrica e veloce, e prende fin dal primo ascolto, per merito della melodia tersa e della voce chiara di Gilmore. Ricorda molto certe canzoni di Edmunds, a cavallo tra pop e rock and roll. Stesso discorso per The way we are, delizioso brano con elementi cajun, rock e pop fusi alla perfezione. Si può dire irresistibile? Con Live forever (Billy Joe Shaver non c'entra) Colin non abbassa la guardia e ci regala un altro gustoso brano pop-rock, molto bello nel suo refrain, con un pizzico di country ad insaporire il tutto. La lenta The beautiful waitress è una cover di Terry Allen (era sul mitico Lubbock): il brano ha l'incedere tipico del suo autore, con il suo sapore di ballata di confine, e la resa di Colin è perfetta, degna di un grande artista (molto bello il duetto con la voce gentile dell'australiana Audrey Auld).
La saltellante Goodnight my darling prelude ad un'altra sorpresa: White man in Hammersmith Palais è proprio il noto brano dei Clash, e Gilmore lo rilegge in maniera brillante, mescolando in modo geniale reggae, rock e country. Uno che fa una cover del genere ha i numeri, non è certo un pivellino. La coinvolgente 2150 è puro country suonato rock, alla maniera di John Fogerty (avete presente Bad moon rising o Lookin' out my back door, ecco lo stile è quello).
So che sto facendo paragoni altisonanti, ma ascoltate anche voi questo disco e converrete che non siamo di fronte ad un talento trascurabile. Chiudono l'album, trentacinque minuti intensissimi, il rock'n'country The you that I knew ed il ritmatissimo rockabilly Every tear, degno finale di un piccolo grande disco. Definire Colin Gilmore sorprendente è poco: sentiremo ancora parlare di lui.