CHRIS RICHARDS (Tumblers & Grit)
Discografia border=Pelle

     

  Recensione del  09/09/2004
    

Ci eravamo imbattuti in lui due anni fa, in occasione del suo debutto discografico per la Ten High Ranch Recordings Jam the Breeze, che ci era piaciuto molto per la sua brillantezza e per la sua interessante sonorità, a metà strada tra il country alla Dwight Yoakam e il rock urbano alla Dave Alvin. Lo reincontriamo oggi, residente in quel di Nashville, che ci fa ascoltare la sua nuova fatica pubblicata da una etichetta indipendente che egli stesso ha contribuito a costituire insieme ad alcuni amici fidati. Stiamo parlando di Chris Richards un cantautore del Wisconsin, nativo di Sheboyan, voce baritonale che ricorda un po' quella di Gordon Lightfoot, che è stato accostato da alcuni critici, dal punto di vista compositivo, a personaggi come John Prine, Lucinda Williams, Ray Wylie Hubbard. Tumbers & Grit è una prova eccellente, tra le più convincenti a parere del sottoscritto tra quelle sentite negli ultimi tempi, ricca di intensità e passione.
È pura country music, che spazia anche nel folk e nel rock, suscitando emozioni e suggestioni, È una vivida selezione di brani che si ascoltano tutti d'un fiato, cui non si può restare indifferenti, tanto son carichi di freschezza e naturalezza. Tutti validi e di spessore anche quando sembrano affrontare ritmi più adatti ai jukebox nel midwest che ai lettori ed di casa nostra. È coinvolta nella sua realizzazione una band composta di musicisti di capacità e qualità quali il chitarrista Kenny Vaughan, l'asso degli archi e del mandolino Chris Carmichael, il violinista Ketch Sezcor degli Old Crow Medicine Show, il tastierista Steve Conn, il bassista Jared Reynolds e il veterano steel guitarist & dobro player Lloyd Green.
To sing the blues è un appassionante country rock, dal sapore jingle jangle e il gradevole refrain, che rimarca quanto sia inevitabile cantare del dolore e della sofferenza quando c'è da seppellire un amore finito. Hard livin' è una honky tonk song dall'impronta alla Jerry Jeff Walker, con pennellate di violino e assolo di electric guitar e steel, che descrive la solitudine di chi viene lasciato.
Bells of Odilla è una canzone molto bella dai toni lenti e riflessivi che rammenta quanto sia facile rimanere puri quando si è lontani dalle tentazioni e invita a rialzarsi sulle proprie gambe dopo una caduta. Jam the breeze è una riedizione della splendida road song dal ritmo trascinante, già titolo del suo precedente album, che esalta la forza incontrollabile che è in noi che ci spinge ad usare l'automobile e ad affrontare il vento.
Crazy too è un brano quasi d'atmosfera, introdotto dalla batteria che resta in primo piano, dal dolce refrain, un piano delizioso, finale con effetti chitarristici e fiddle, che descive la perdita di significato della vita quando si rimane soli e l'alcool non basta a colmare il vuoto. Hang On the moon è una ballata acustica dall'apparenza semplice, ma con un superbo ritornello e il dobro protagonista nel break strumentale, che riafferma l'indifferenza della natura, coi suoi ciclici mutamenti, nei confronti delle incertezze e dei dubbi dell'uomo. Nashville gas è una simpatica honky tonk song che tende a sottolineare il fascino irresistibile del sound della Fender Telecaster e della steel guitar nell'ambito della musica country.
Hearts like these è un'ottima Texas country love song, supportata da mandolino e fisa, cantata in duetto da Chris e Dawn McCoy, nome nuovo in possesso di una bella voce alla Lucinda Williams. One foot è un'affascinante western ballad, dal refrain ancora una volta invitantissimo, piacevole assolo di chitarra acustica e gradevole fisa seminascosta, che evidenzia il bisogno urgente di tornare a casa dopo aver sostenuto molte battaglie. Honkytonk graveyard è un'altra honky tonk song dalle venature bluegrass, violino sugli scudi e grintoso arrangiamento elettrico, dove l'autore invoca la sepoltura nel luogo col jukebox più vicino al cielo. The ballad ofthe Analog kid è una grande ballata, come vuole il titolo, con ottimi assolo di dobro, che denuncia la brutale abitudine di mettere da parte, come un macchinario sorpassato, che non è più in produzione.