DARDEN SMITH (Marathon)
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  Recensione del  01/12/2010


    

Il ‘Work in progress’ sembra contraddistinguere la carriera del songwriter texano Darden Smith, la riprova nell’ultimo progetto intitolato Marathon (“Marathon a great name for a song. So for 25 years I’ve been carrying that around, that this would be a great title for something,” dice Smith), fino a trovarne il senso in quel luogo (anche della mente) in cui trascorrere una parte importante della giornata/vita, nell’anomia più totale di relazioni e umanità, “Somewhere I wanted to go, and a place I could never reach. The desert reminds me of that: It’s barren, and it’s harsh. You’re alone out there. It’s daunting – but I’m drawn to it.”
Il deserto dove stile e creatività si espandano insieme partendo dalla scelta di una solitaria fattoria dove trovare l’ispirazione, lungo le rotaie delle strumentali Marathon e Tinaja che costeggiano una piccola cittadina nel nord del Texas ad evocare visioni e distanze appunto desertiche, spirituali nella splendida ballata di Sierra Diablo, Darden Smith osserva il paesaggio di strade sterrate, lungo highways che si perdono all’orizzonte dove ogni tanto compaiono piccoli Hotel contagiati dalla malinconia che li circonda ed è ciò che gli interessa, si serve di queste forme per dischiudere un utile capitale metaforico, il dolce fantasticare di un passeggiatore solitario assorbito dal tempo che passa, dal gusto di una dolce melodia, ‘svegliato’ dalla fisa della meravigliosa Bull By The Horns mentre percorre il confine messicano.
L’inizio di Marathon è western più che americana, ma in quel deserto popolato dai coyote dove sotto il sole cocente sembrano profilarsi pistoleri minacciosi, viene a galla l’indole astratta e più libera di Darden Smith caratterizzata da un ritmo davvero oscillante, dilatato dal piano nella toccante malinconia delle altre strumentali Vertigo e Marathon Sky, di ballate deliziose col timbro folk da Make It Back To You, Over My Beating Heart ad Mortal Coil con l’elettro-acustico di Don't It Go To Show, Escalator e Truth Of the Rooster che si fondono al piano e soprattutto alla tromba di Michael Ramos, a renderle sospese proprio come la vita.
Marathon rispecchia gli ultimi anni di Darden Smith in cui si è diviso tra l’arte del chitarrista, del produttore, del co-writer e non ultimo del compositore sinfonico nell’adattamento della sua musica per il teatro, trovando l’idea per il nuovo disco (il primo in cinque anni) nel 2003, quando ha iniziato a lavorare ad un monologo intitolato ad un oasi a nord del Big Bend National Park.
Quegli spazi sconfinati che si riflettono nella recita dell’emozionante The Water, ancor più profonda per l’ottimo appoggio di Mike Hardwick –pedal, lap steel e chitarra elettrica- e nell’essenza di due perle come 75 Miles of Nothing e la conclusiva No One Gets Out of Here, come un ‘lonely man’ febbricitante che si aggira per le strade scosso da brividi continui, in un movimento che procede dal fuori al dentro, entrando/uscendo da zone illuminate lungo le statali del Texas, Darden Smith si allontana e Marathon assume durata.